Dieci anni addietro, di questi tempi, il sottoscritto stava osservando il processo di progressiva demolizione del governo Berlusconi per mano dello spread e dei mercati finanziari. Un crescendo di devastazione causata dalla devianza del nostro paese rispetto alla ortodossia pro tempore vigente entro l’Unione europea e ai due paesi che da sempre ne rappresentano il fulcro politico: Germania e Francia. Dopo il default della Grecia, pareva giunto il turno di un paese ben più grande e sistemico.

Dalla Germania giungevano dichiarazioni durissime ma anche piuttosto ingenue. Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle Finanze del governo Merkel, sotto la suggestione di falchi come Hans-Werner Sinn e della Bundesbank, addirittura sosteneva che un paese potesse uscire dalla moneta unica, risanare e poi rientrare. In seguito, Schäuble giunse persino ad accusare i paesi con finanza pubblica in disordine di essere il carburante nel motore dell’ultradestra di Alternative für Deutschland.

La radice di ogni male

Da noi, la politica si divideva tra un’opposizione che spesso dava prova di non minore ingenuità, o altro, e imputava a Silvio Berlusconi di essere la radice d’ogni male, soprattutto di una politica economica inesistente e fallimentare, e una maggioranza che tentava una disperata via di fuga nel cospirazionismo e vittimismo, evocando complotti contro il nostro paese orditi da Deutsche Bank, con la vendita di sette miseri miliardi di Btp in un trimestre, e scordando che in quei mesi praticamente tutto il mondo stava vendendo il nostro debito, nella convinzione che il paese sarebbe andato in default pur non necessariamente uscendo dall’euro.

La pietra dello scandalo era la famigerata “lettera della Bce”, in cui Jean Claude Trichet e l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, indicavano alcune riforme ineludibili, tra cui quella delle pensioni, che ci era caduta in testa a causa della depressione demografica del paese, che da allora non ha fatto che aggravarsi. La politica italiana invocava il rispetto che si deve a un paese co-fondatore della Ue, come se ciò fosse una sorta di scudo contro decenni di politiche economiche autolesionistiche.

Un fallimento storico

Le ultime settimane prima della caduta di Berlusconi furono particolarmente penose, con la maggioranza che cercava disperatamente di assemblare uno degli innumerevoli “decreti sviluppo” che hanno solcato la storia recente di questo paese e delle sue illusioni, fatto di misure di liberalizzazione risibili eppure fieramente avversate dalle categorie colpite. Alla fine, sotto le spallate dei mercati finanziari, arrivò Mario Monti e i partiti si accomodarono sul sedile posteriore, in attesa che qualcun altro facesse il lavoro sporco, cosa che puntualmente avvenne.

Un fallimento storico della politica, non il primo e neppure l’ultimo, come oggi testimonia la presenza a palazzo Chigi di Mario Draghi e, in passato, di Carlo Azeglio Ciampi. Uno schema ormai acquisito: crisi di sistema ed economica, partiti temporaneamente estromessi, arrivo del tecnico con prestigio internazionale, apparente risanamento, ritorno dei partiti, nuova crisi di sistema.

L’apparenza di risanamento era rappresentata da aggiustamenti puramente contabili, sufficienti a rassicurare i partner europei e la miopia dei mercati, lasciando inalterata la struttura sottostante della nostra economia e, soprattutto, del nostro modo di essere comunità nazionale. Fatto di vittimismi e corporativismo estremo, nel tentativo di catturare risorse fiscali nel frattempo esaurite.

Il paese dove una spesa pubblica di pessima qualità supera ormai la metà del reddito nazionale eppure si levano alti lai contro il “neoliberismo”; dove affiorano ardite teorizzazioni di debito da curare con altro debito; dove si sogna un welfare scandinavo ma la qualità dei servizi pubblici è spesso mediorientale.

Devo confessare di essere stato un assai ingenuo sostenitore del vincolo esterno e del suo presunto valore salvifico. La realtà mi ha pesantemente sconfessato. Il paese ha solo proseguito il suo lento inabissamento, fatto di demolizione di capitale umano, di un tessuto economico in ampia parte inidoneo al contesto economico esterno, dove le eclatanti eccezioni del celebrato Made in Italy restano, appunto, eccezioni.

Un paese dove le politiche attive del lavoro non sono mai esistite (anche per carenza di materia prima, le risorse fiscali), e si è preferita la via confortevole delle “reindustrializzazioni”, che storicamente continuano a fallire e dove il denaro pubblico a esse immolato attira spesso truffatori e faccendieri, anche esterovestiti. Un paese in cui si scrive “riforma del fisco” e si pronuncia tax expenditures, cioè agevolazioni che diventano diritti acquisiti e servono solo a ritagliare il consenso di porzioni di elettorato. Un paese dove la crisi demografica sta corrodendo le fondamenta dell’edificio, o quello che ne è rimasto.

Affidarsi al tecnocrate

La fase post-pandemica, quella della storica mutualizzazione del debito europeo, viene vissuta da molti in Italia come una sorta di risarcimento morale e materiale per i torti immaginari subiti per mano del destino. La religione del debito che cura il debito appare non solo intatta ma se possibile rafforzata. Si festeggia la morte di una improbabile austerità, che nei fatti non è mai esistita, e che in realtà è stato il costo di una politica economica disfunzionale, pregna di un populismo che preesisteva alla stagione del parlamento da aprire come una scatoletta di tonno, per mangiare avidamente il contenuto dopo essere stati cooptati dal sistema.

E del resto, l’inerzia del sistema sociale ed economico del paese è tale da suscitare qualcosa che si avvicina alla disperazione. Non si inverte una profonda depressione demografica nello spazio di una legislatura, neppure avendone le migliori intenzioni. Né si ristruttura il sistema di educazione e formazione nello stesso arco temporale, ammesso e non concesso di sapere come farlo in discontinuità della solita immissione di spesa pubblica.

Lo stesso vale per il mercato del lavoro, quando si hanno ampie porzioni del tessuto produttivo che appaiono poco idonee alle sfide della discontinuità tecnologica.

Ci si lancia con l’entusiasmo del neofita sul cambiamento ecologico solo per scoprire quanto siano punitive le transizioni, quando le tasse verdi colpiscono i più poveri o si assiste alla morìa di fornitori della filiera dell’auto, per poi lanciarsi in comizi contro l’opportunistica disumanità delle multinazionali o finanche le contraddizioni del capitalismo. Un drammatico iato tra la retorica e l’azione.

La presenza a palazzo Chigi di una figura come Mario Draghi rappresenta l’eccezione che è diventata regola: il tecnocrate che supplisce ai ricorrenti fallimenti del sistema politico.

Il cosiddetto vincolo esterno, nel caso del nostro paese, è stato l’equivoco che ha consolidato la sclerotizzazione del paese e la sua crescente inadeguatezza al contesto internazionale. Resta la speranza che questa volta le cose vadano in modo differente, anche se non è affatto chiaro perché dovrebbero.

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