Mancava solo l’indagine che coinvolge il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa a complicare l’allargamento della maggioranza giallorossa. Cesa, che “pesa” per tre voti al Senato, e per un simbolo abbinato a Forza Italia ma potrebbe diventare gruppo autonomo, si è sempre dichiarato non interessato a fare da stampella a Conte. Soprattutto dopo che, alla vigilia della fiducia, è arrivato il “niet” di Berlusconi tramite Gianni Letta, amico personale di Goffredo Bettini e da sempre “costruttore” di ponti politici fra azzurri e Pd. Ma gli sherpa di palazzo Chigi non avevano ancora smesso provare.

Effetto Cesa

Ieri la notizia delle indagini ha deposto una pietra tombale sulla faccenda. E il ministro Luigi Di Maio ha scritto l’epitaffio, strattonando Berlinguer proprio nel centenario della nascita del Pci: «Il consolidamento del governo non potrà avvenire a scapito della questione morale». Si chiude un’altra strada nell’intricato labirinto del senato dove la prossima settimana, in contemporanea con la Camera, potrebbe andare al voto la relazione sulla giustizia del ministro Bonafede.

Il voto non sarebbe obbligatorio, ci sono molti precedenti in questo senso, ma se una forza politica presenterà una mozione, la maggioranza sarà costretta a presentare la sua. E Italia viva difficilmente si farebbe sfuggire l’occasione di dare un altro calcio a Conte. Che potrebbe essere il colpo definitivo: il giustizialista Bonafede è uno dei ministri più detestati dai centristi di destra. La relazione potrebbe slittare. Palazzo Chigi lavora per uscire dai guai, ma è una corsa contro il tempo, dopo l’inerzia e l’improvvisazione con cui da settimane affronta il dossier. «O nasce entro domenica o temo che non ce la facciamo», viene spiegato. Alla Camera Bruno Tabacci ha messo insieme nel suo Centro democratico dodici deputati. E con l’ex forzista Renata Polverini il gruppo «avrebbe una sua identità politica», spiega un notabile Pd. Ma ne mancano otto, alla Camera ne servono venti. Ieri ha incontrato Gianfranco Rotondi, di FI, che ha appena depositato un nuovo simbolo centrista.

Tabacci chiede «l’impegno diretto di Conte», il premier però non indicare una “sua” forza politica: salterebbero gli equilibri precari di M5s. Il sottosegretario Federico D’Incà analizza i numeri che servono a mantenere la maggioranza nelle commissioni.

A palazzo Madama invece è tutta salita: si lavora sulla componente del Misto Maie-Italia23, cinque parlamentari. Ne servono altrettanti per un gruppo, e un’altra decina per stare tranquilli. Ma arrivano più no che sì: ieri quelli di Gelsomina Vono (Iv), Luigi Vitali (FI) e Mario Giarrusso (ex M5s).

Goffredo Bettini, su Raiuno, si lascia andare a uno sfogo: «È stato Renzi a creare questa condizione di precarietà e adesso non sa come uscirne». L’inguaribile ottimismo della volontà porta il dirigente dem a rivolgersi a Emma Bonino e Carlo Calenda: «Perché quest’area non si mette insieme? Rappresenta il 10-15 per cento». Però Emma Bonino, che pure vota i provvedimenti «europeisti» dei giallorossi, è molto severa con Conte: «Dopo aver governato con la Lega può essere il successore di sé stesso, ma non l’alternativa a sé stesso». Dal Pd si spera in un sommovimento in Iv, e in effetti malumori bisbigliati e dichiarazioni possibiliste arrivano ogni giorno: ma non quaglia nulla.

Non è finita: se anche i nuovi gruppi dovessero arrivare, per Conte non sarebbero risolti tutti i problemi: il premier vuole evitare a ogni costo il “ter”, cioè vuole considerare “rimpastone” anche l’allargamento della maggioranza alla “quarta gamba”, oltreché il cambio e l’ingresso di alcuni ministri. Teme le trappole dell’apertura formale della crisi con le sue dimissioni e le consultazioni. Segno che la sua fiducia nel Pd, e forse anche nei Cinque stelle, non è proprio proprio totale. Su questo deciderebbe il Colle.

La destra al Colle

E al Quirinale ieri sono saliti i tre leader Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani per ribadire la richiesta di elezioni. «Il governo non ha più una maggioranza compatta.

Il problema non è semplicemente il governo ma questo parlamento», ha spiegato all’uscita Meloni. Il presidente Mattarella ha ascoltato, ma non avrebbe mosso un sopracciglio per non dare adito a interpretazioni.

La crisi si apre se il governo perde la maggioranza nelle camere, o se il premier si dimette, fin lì c’è solo la moral suasion.

All’incontro non sono andati i cespugli della destra, Udc, Cambiamo con Toti e Noi per l’Italia (di Maurizio Lupi). Il dissenso è sulla richiesta di voto in piena pandemia e pieno (si fa per dire) piano vaccinale. Preferirebbero, come Renzi, un governo di unità nazionale. Che però il Pd esclude («Meglio il voto», dice Nicola Zingaretti) e i Cinque stelle non commentano neanche, forse per non impiccarsi a una posizione che, in caso di malaparata, potrebbe cambiare.

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