«Spedire un ventilatore non equivale ad avere un posto letto di terapia intensiva in più». A dirlo è Alessandro Vergallo, presidente dell’Aaroi-Emac, il sindacato degli anestesisti. Perché, l’attrezzatura può essere acquistata, i reparti rinnovati, ma se non c’è nessuno che sappia utilizzare gli strumenti quello nuovo rimane un letto di reparto normale: «far passare il messaggio che basti spedire qualcosa per rafforzare la sanità è fuorviante».

Insomma, c’è il rischio che i nuovi posti poi non possano essere immediatamente messi in uso: per gestirli, infatti, ci vogliono anestesisti molto esperti, una specializzazione medica di cui c’è cronica mancanza in Italia, già da prima della pandemia, quando al sistema ospedaliero ne mancavano già circa 4mila.

Oggi, che gli ospedali devono fronteggiare una nuova ondata di Covid-19 e i reparti d’urgenza iniziano ad affollarsi di nuovo, questa mancanza si fa sentire. E, paradossalmente, i lavori di Regioni e governo centrale per aumentare i posti letto di terapie intensive e subintensive fanno diminuire il rapporto di anestesisti per posto letto: secondo le elaborazioni dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’università Cattolica aggiornate al 14 ottobre, a livello nazionale il dato è passato da 2,5 medici per malato a soltanto 1,6. Il dato peggiore è quello di Marche e Calabria, dove il rapporto è di 1,4, mentre in Campania, il dato più alto, arriva a essere addirittura di 2,1 unità per letto.

Una questione storica

Il problema è in buona parte strutturale: la causa principale riguarda il cosiddetto “imbuto formativo”, ossia il fatto che dalle scuole di specializzazione escono storicamente molti meno medici di quanti ne siano necessari: gli anestesisti da assumere, quindi, sono oggettivamente pochi.

E non è una tendenza che si risolve in un batter d’occhio, considerato che per formarne uno ci vogliono cinque anni. Proprio per questo motivo, le nuove borse di studio che il governo ha deciso di finanziare quest’anno per potenziare proprio il numero di quegli specialisti (oltre agli anestesisti, anche i medici d’urgenza) che non sono bastati durante la pandemia, daranno i loro frutti solo nel 2025.

È una mossa per cercare di rimediare almeno in futuro a quel che non si è speso in passato: l’Italia è penultima tra i grandi paesi europei per spesa sanitaria pro capite, che ammontava nel 2019 a 1.900 euro, contro i 2.993 della Francia e i 3.443 della Germania (dati Cergas/Sda Bocconi).

Oltre a non finanziare la sanità, non attiriamo neanche medici e infermieri dall’estero, come accade per esempio in Germania: «gli stipendi italiano sono nettamente inferiori, inoltre in Italia sono molto più frequenti i coinvolgimenti legali a cui si va incontro nella professione sanitaria», dice ancora Vergallo.

Soluzioni a breve termine

Risolvere una questione vecchia di anni in pochi mesi è impossibile, ma amministrazioni locali e stato centrale hanno provato a trovare almeno una soluzione temporanea.

Tra marzo e maggio sono state assunte 23.580 persone, quasi la metà della diminuzione di personale impiegata nel settore sanitario ottenuta con dieci anni di tagli. La protezione civile, quindi il governo centrale, ha proposto a fine marzo un primo bando per reclutare 300 medici e 500 infermieri e ad aprile una seconda chiamata rivolta anche agli operatori sociosanitari.

L’assunzione è, come tutte la sanità, in mano alle regioni, che hanno da parte loro proceduto a bandire concorsi, come ha fatto la Campania, che ha assunto a febbraio ottocento infermieri e cento medici a tempo indeterminato.

Eppure, adesso che alle attività ordinarie riprendono ad affiancarsi sempre più casi Covid-19, i reparti d’emergenza cominciano a essere in sofferenza.

Un piano di recupero

Perché il personale specializzato non aumenta: a marzo si erano sospese le attività non urgenti, ma non è stato ancora deciso come gestire la situazione adesso. Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, per esempio, ha già dichiarato di non voler chiudere i reparti ordinari e ha chiesto nei giorni scorsi al ministro della Salute un piano di recupero dei medici e degli infermieri italiani in Europa.

Una soluzione che, però, non contribuirebbe in maniera determinante a risolvere il problema, per questioni di metodo, lingua e abitudini dei medici formati all’estero non per forza compatibili con quelli dei colleghi impiegati in Italia.

In corsia

Allo stesso tempo, il governo ha cercato di agevolare l’ingresso in corsia degli specializzandi di anestesia più esperti, quelli degli ultimi due anni: già con il decreto del presidente del Consiglio del 9 marzo venivano equiparati ai neoassunti, garantendo agli ospedali mille anestesisti in più su cui contare.

Un tesoretto di competenze che però potrebbe scomparire così come si è palesato, considerato che il provvedimento, a meno di un rinnovo a breve, scadrà il 31 dicembre.

Una categoria, quella degli specializzandi, che durante la prima ondata di pandemia ha contribuito a non far collassare totalmente il sistema sanitario: sia quelli già inseriti da anni in reparto, sia i neolaureati al primo anno hanno infatti prestato servizio nei reparti Covid-19.

Concorso bloccato

Una risorsa preziosa, che quest’anno rischia di partire zoppa. Sono infatti 14mila i medici che si sono laureati l’anno scorso e ora sono in attesa di essere assegnati alla loro borsa di studio: per una questione di ricorsi, infatti, il concorso per l’assegnazione che si è tenuto lo scorso 22 settembre è bloccato.

Gli esiti (e quindi gli ospedali in cui i cosiddetti “camici grigi” andranno ad operare) dovevano essere pubblicati il 5 ottobre, ma solo oggi il Tar del Lazio dovrebbe pronunciarsi sulla controversia. Intanto, i 23mila partecipanti sono bloccati in un limbo: le gare per diventare medico di base o guardia medica sono scaduti.

L’altra possibilità che hanno è svolgere la mansione di Unità speciale di continuità assistenziale (Usca), ossia effettuare i tamponi nelle abitazioni dei casi sospetti di Covid-19, per cui però solo alcune regioni hanno riaperto i bandi. Tanti conflitti irrisolti, che lasciano competenze di cui gli ospedali hanno bisogno a casa.

 

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