Giovanni Papotti è un avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione. Segue diversi casi di persone trattenute nel Cpr di Torino, città in cui vive. A maggio, alcuni dei suoi assistiti sono stati trasferiti improvvisamente in Albania. Tra ritardi burocratici, telefonate intermittenti e una procedura opaca, per Papotti, «il sistema è costruito per far perdere gli avvocati».

Per i trattenuti nei dieci Centri di permanenza per i rimpatri in Italia, e ora anche nei centri albanesi di Gjadër e Shëngjin, l’assistenza legale è sancita dalla legge n° 14 del 21 febbraio 2024. Secondo le testimonianze di alcuni avvocati, il diritto alla difesa è spesso solo formale.

L’iter

Quando una persona viene trattenuta in un Cpr, la questura emette un provvedimento di trattenimento, che viene valutato in udienza. Se il soggetto non ha un proprio avvocato, ne riceve uno d’ufficio scelto dalle liste penali. Questi avvocati, pur preparati nel diritto penale, a volte non hanno esperienza specifica nel diritto dell’immigrazione, e di Cpr in particolare.

Quando un avvocato prende in carico un caso, specialmente se subentra in un secondo momento, non riceve automaticamente i documenti necessari. Deve recuperarli attraverso molteplici richieste di accesso agli atti in varie sedi per ricostruire un quadro completo della situazione.

Comunicare con l’esterno

L’accesso al telefono spesso determina il successo, o l’insuccesso della difesa. Poter comunicare con l’esterno permette a chi è trattenuto nei centri di conversare con i propri affetti, oltre che con il proprio avvocato. Ma, come spiega Eleonora Celoria, avvocata dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, non ci sono regole chiare al riguardo. I Cpr non hanno indicazioni che disciplini la comunicazione con l’esterno, a differenza delle carceri italiane.

Accade quindi che, a seconda del centro, l’accesso al telefono venga permesso o negato, ritirandolo o proibendo l’uso di fotocamera o applicazioni come WhatsApp.

Rispetto al sistema carcerario italiano, non è previsto, per la difesa, un supporto di mediazione culturale o linguistica. Queste regole arbitrarie rendono difficile costruire un rapporto di fiducia tra avvocato e assistito, e raccogliere informazioni e documenti cruciali.

I Cpr albanesi

L’apertura dei centri di Gjadër e Shëngjin, in Albania, aggrava alcune delle difficoltà già esistenti. I trasferimenti, così come i rimpatri, avvengono nel silenzio, senza che nemmeno gli avvocati ne siano notificati. Dopo giorni senza notizie, «devi aspettare che la persona, magari dal paese d'origine, ti chiami e ti dica “Mi hanno rimpatriato”», racconta Papotti. Nel diritto penale si conoscono invece le date di fine pena, e gli avvocati ricevono gli ordini di scarcerazione.

Anche se nei centri albanesi le comunicazioni telefoniche sembrano più frequenti che in alcuni Cpr italiani (come è ad esempio il caso per quelli di Caltanissetta o Potenza), la distanza geografica ostacola un’assistenza efficace.

La legge 14/2024 prevede la possibilità di rimborsare agli avvocati un unico viaggio da e per l’Albania, e solo nel caso sia impossibile collegarsi da remoto. Una logistica che impedisce quel contatto diretto che nei Cpr in Italia permette di parlare di persona con gli assistiti e ottenere materiale dalle amministrazioni. Così, molti avvocati come Papotti si ritrovano a difendere persone mai incontrate di persona. E la distanza facilita abusi, errori burocratici e la circolazione di informazioni errate.

Attesa e trasferimenti

Un assistito di Papotti, proveniente dal Gambia è entrato nel Cpr di Brindisi con una diagnosi medica di pluritossicodipendenza e Hiv. Nonostante documenti del 2018 ne riconoscessero la protezione umanitaria e l’intrattenibilità, da gennaio a maggio 2025 è stato trasferito a Brindisi, poi a Torino, Brindisi di nuovo, Gjadër, Bari e infine Livorno, dove a giugno è stato rilasciato.

La domanda d’asilo è stata formalizzata solo dopo pressioni da remoto, mentre il gestore del Cpr albanese forniva informazioni distorte, senza che Papotti potesse intervenire di persona. Durante la permanenza a Bari, è stato dichiarato idoneo alla detenzione, durata quattro mesi.

Dal 2019, è stata introdotta la possibilità di presentare istanze relative alle condizioni nei Cpr al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, una figura indipendente non giudiziaria, che può fare segnalazioni sulle condizioni dei trattenuti.

Nel 2024, il Garante ha redatto tre rapporti, dopo aver visitato i centri di Roma, Trapani e Caltanissetta. Queste figure, spiega Celoria, sono importanti per portare alla luce delle situazioni di criticità in rapporti pubblici, ma non hanno gli strumenti giuridici per obbligare prefetture e questure a cambiare.

I trattenuti vivono quindi una situazione di totale incertezza, isolati da chi è incaricato di difenderli e senza informazioni certe relative alla loro permanenza nei Cpr. A differenza del carcere, nei quali i detenuti conoscono la durata della pena e possono prendere parte ad attività, nei Cpr i trattenuti possono solo attendere «nel terrore di essere rimpatriati da un giorno all’altro», spiega Papotti.

L’assenza di norme chiare che determinino con precisione le modalità del trattenimento fa sì che il diritto alla difesa dipenda da contingenze legate al Cpr di riferimento. Aspetti che secondo Celoria, «rendono quel diritto senza consistenza».


 

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