In che modo il Covid-19 sta cambiando e ha cambiato noi, il nostro modo di vivere e il mondo in cui viviamo? Partiamo da una constatazione: il virus ci obbliga ad affrontare un’apparente contraddizione e un reale paradosso. L’umanità è la specie più infestante, quella più minacciosa per la sopravvivenza del pianeta Terra, ma è anche la componente più vulnerabile del mondo che ha costruito intorno a sé negli ultimi decenni. Siamo estremamente pericolosi per l’ecosistema, soprattutto a causa della realtà artificiale che abbiamo edificato nella convinzione di esasperare ed esaltare (almeno in apparenza) le nostre capacità. E allo stesso tempo siamo enormemente fragili nella nostra dimensione naturale, per i rischi ai quali ci espone la medesima struttura che ci siamo costruiti intorno.

Tra la “fase 1” e la “fase 2” della pandemia emerge una principale differenza: nella prima è prevalso un sentimento di genuina, profonda e in fin dei conti inaspettata solidarietà; mentre in quella successiva sono montati la diffidenza, la frustrazione e un cupo rancore. Nella prima fase della pandemia la politica era sospesa, come le nostre vite e il tempo durante il lockdown della primavera 2020: non era in primo piano né per la capacità di immaginare e proporre il mondo che sarebbe venuto “dopo”, né in termini di lotta per la conquista del potere. Nella seconda fase la politica è invece tornata centrale, con la sua grandezza e con le sue miserie.

La profondità della delusione e quindi l’amaro risveglio e il sorgere del rancore derivano dalla combinazione di due elementi: l’inaspettata apertura di credito che la politica si era improvvisamente meritata, e che poi aveva sciupato, e la rimozione pluridecennale del conflitto che non per caso si era accompagnata alla fine di ogni immaginazione/progettazione sul futuro.

Immaginare il futuro

Occorre chiarire una cosa. Immaginare il futuro, e non limitarsi passivamente a prevederlo, è una funzione essenziale della politica, anzi forse è la funzione essenziale. E non c’è nulla di patologico nel pluralismo delle prospettive, né nel competere per ottenere un ruolo maggiore nelle decisioni che dovranno essere adottate oggi affinché il domani sia il più possibile simile a quello che desideriamo. Il tempo della politica è sempre stato bifasico.

Da un lato la politica coincide con la capacità di fissare obiettivi ambiziosi e protratti nel tempo, di immaginare, prima ancora che prevedere, il futuro. Dall’altro, la politica deve assumere decisioni rapide, in grado di coalizzare il consenso qui e ora, così da fissare priorità tra le possibili linee d’azione che portano al futuro immaginato e quindi scegliere come allocare risorse che, per definizione, sono scarse.

È importante non perdere di vista la differenza tra prevedere e immaginare: cercando di prevedere il futuro mi colloco in una posizione passiva rispetto agli eventi; tentando di immaginare un futuro, assumo un ruolo maggiormente attivo. Considero cioè che le mie scelte siano in grado di influenzarlo e cambiarne il corso e l’esito. Un futuro che concorro a disegnare, verso cui tendo e per realizzare il quale opero nel presente, non un’idea generica di futuro. Il paradosso è che, se si priva la politica della sua dimensione conflittuale, la si riduce a mero ambito di costruzione e trasmissione del consenso. Un’operazione che coincide con la spoliticizzazione della società: al posto del conflitto politico in quanto espressione e educazione del conflitto sociale – il suo inquadramento all’interno delle istituzioni politiche democratiche – si propone la competizione economica come “arena del talento e del merito”. Ma in quest’ottica non importa in che modo la dotazione di talenti sia stata ottenuta, per nascita o per acquisizione, e in che modo il merito venga giudicato. Attraverso l’espulsione del conflitto sociale e politico dal campo di ciò che è legittimo e fisiologico si restringe il campo del politico, l’ambito nel quale è possibile immaginare e proporre futuri alternativi.

Il cavallo di Troia

Durante la pandemia, molti osservatori hanno dipinto uno dei suoi possibili esiti come una prevalenza del “modello cinese” di organizzazione economico-politica, con il suo capitalismo di concessione, su quello occidentale di mercato, intendendo con quest’ultimo il modello che si è imposto con la iperglobalizzazione neoliberale a partire dagli anni Novanta. È un’ipotesi semplicistica, che prospetta la necessità di scegliere tra due assetti che hanno mostrato entrambi devastanti criticità: il primo in termini di forte compressione delle libertà individuali, il secondo nella crescente indifferenza alle necessità sociali. Entrambi finiscono col privilegiare i “pochi” a spese dei “molti”, il privilegio invece dell’uguaglianza.

Entrambi stanno convergendo verso il crony capitalism, quel capitalismo clientelare contraddistinto dall’intreccio tra potere politico e potere economico e dal fatto che le decisioni pubbliche – comprese quelle che consistono dall’astenersi dall’intervenire – conferiscono un vantaggio privato senza corrispondenti benefici collettivi. In tal modo si creano o si tollerano delle rendite, guadagni che esistono solo perché resi possibili da quelle protezioni. Lo scambio avviene sulla base di due reciproche utilità: il potere economico si avvantaggia della protezione del potere politico che, a sua volta, esce rafforzato dal sostegno del potere economico.

Un altro paradosso, questa volta solo apparente, è che è stata proprio l’apertura completa dei nostri sistemi economico-politici di capitalismo di mercato e liberali ad attori che provengono da sistemi di capitalismo di concessione e illiberali, a consentire più facilmente l’ingresso di “cavalli di Troia” all’interno delle nostre mura cittadine. Attraverso il capitalismo globalizzato anche i nostri sistemi sono diventati vulnerabili, perché infiltrabili da soggetti politici illiberali che minacciano la sicurezza della nostra democrazia.

Ma le nostre democrazie sono altrettanto minacciate dall’interno: dallo strapotere dei soggetti economici privati, sempre più in grado di sfuggire alla regolazione del campo della competizione a opera del potere pubblico. In altre parole: la “cattura del regolatore” da parte degli interessi che dovrebbero essere regolati convive con la possibilità che sia la politica a intervenire nel mercato in modo predatorio.

È sempre stato così. Quello che oggi è drammaticamente cambiato è la possibilità che il sistema nervoso dell’economia globale e delle nostre società possa dare l’impulso a entrambe le minacce e, insieme, a minacce di provenienza interna o esterna.

Il crony capitalism o capitalismo clientelare è la forma verso la quale stanno convergendo tanto il capitalismo “all’occidentale” quanto quello “alla cinese”: è la più preoccupante dimostrazione che viviamo in un’economia sempre più oligopolistica e oligarchica, fatta di gigantesche concentrazioni proprietarie, iper-finanziarizzata, dagli assetti tecnologici sempre meno trasparenti e sempre più influenti. Ciò è anche dovuto al fallimento complessivo, direi alla rinuncia, di governare politicamente le conseguenze sociali dell’innovazione tecnologica e, in particolare, della “grande trasformazione” rappresentata dalle due rivoluzioni che si sono susseguite negli ultimi cinquant’anni: quella della digitalizzazione e quella dell’intelligenza artificiale.

Quando si verificò l’altra grande trasformazione – la diffusione della macchina a vapore e del telaio meccanico a inizio Ottocento – ci vollero quasi centocinquant’anni (una rivoluzione e due guerre mondiali) perché l’impatto sull’organizzazione del lavoro e della produzione potesse essere gestito politicamente, in modo che i benefici andassero ai molti e non ai pochi, che l’innovazione fosse trasformata in progresso, la crescita in sviluppo. Perché dovremmo illuderci che oggi, senza un analogo sforzo consapevole e collettivo, le cose siano destinate ad andare armonicamente in equilibrio, di fronte a una rivoluzione dalla portata ancora più trasformativa?

 

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