In un tempo dove tra i populisti un eccesso di vanità abbassa incautamente l’età del concedersi a una biografia, incrociarne una dotata dei requisiti giusti (età, curriculum, idee seminate, traguardi raggiunti) riconcilia col genere. Basterebbe questo a consigliare “Strana vita, la mia”, il racconto scritto da Romano Prodi con Marco Ascione (Solferino 2021).

Lettura intrigante a partire dalla chiave di coda dove il filo della conversazione è riassunto nella ricerca ostinata del dialogo, lo «strumento più importante» al servizio di chi sappia coltivarlo. Tutt’altro che un’ovvietà soprattutto se indirizzata agli interlocutori meno scontati, e qui il pensiero vira sui giorni drammatici dell’estate afghana quando dinanzi a voci colleriche iscritte al “non si parla coi terroristi” era stato il professore in persona a rammentare la facilità di dialogare con Francesco e quanto fosse ostico parlare al lupo.

Convinzione ripresa nel racconto di una vita stretta tra vocazione accademica, l’impegno da manager pubblico e l’altro, il più noto, alla testa dell’Ulivo nelle due avventure elettorali che Prodi ha pilotato di persona vincendole entrambe. Perché quel riferirsi al confronto come metodo riflette una premessa: si è capaci di dialogo solo a condizione di muovere da convinzioni solide e in questo l’esercizio del potere non deve né può trasformarsi mai da mezzo a fine ultimo.

L’Africa

Ma si diceva del dialogo. In verità quel rimando solo in parte riguarda il contesto interno. La vocazione a incrociare argomenti, anziché silenzi o, peggio, minacce o armi, emerge con più forza appena la ricognizione del passato si misura col mondo. E infatti cuore del libro è una sorta di mosaico globale dove i “grandi” imperi come le “piccole” patrie finiscono con l’acquisire ruolo in una relazione dipendente gli uni dalle altre.

E allora la Libia dove Prodi avrebbe volentieri dato una mano se solo qualcuno glielo avesse chiesto. Invece per due volte chi poteva farlo ha preferito spedire la palla in tribuna. In un caso, divertente per quanto paradossale, prospettandogli incarichi di ben altro spessore e prestigio (sic). La Libia, ma a emergere nel resoconto è l’Africa tutta.

Il Mali dove, per gli accidenti del caso, il professore si trova in missione quando in un pugno di ore si scopre promosso al Colle più alto e subito poi congedato senza grazia. O il Sahel, altro “teatro di lutti”, anche se lì, al contrario, arriva con la patente di inviato speciale delle Nazioni Unite, sino ai ripetuti incontri coi leader meno facili da coinvolgere dentro un processo di pace. Perché soprattutto in politica estera il confronto non si esaurisce nei dossier, ma è frequentazione, intreccio umano di esperienze e consuetudini che, sole, hanno il potere di sdoganare una confidenza decisiva se obiettivo è dirottare conflitti in potenza devastanti nel solco di soluzioni condivise.

Dove finisce l’Europa?

Dunque, il mondo. Direi che c’è questo elemento a distinguere la trama della storia, quella biografica in senso stretto e l’altra, destinata a mutare il quadro d’insieme comprese le grandi svolte che l’ultimo ventennio ha riservato. Da Pechino a Washington con l’Europa, terra di mezzo, costretta dopo la stagione dell’allargamento (rivendicata anche nella tempistica) a ripensare la sua missione dinanzi a un’America proiettata per la prima volta dopo il 1945 a spostare nell’Indo-Pacifico il baricentro dei propri interessi.

Comunque l’Europa, e non poteva che andare così, si ritaglia uno spazio centrale in ogni senso. I cinque anni alla guida della Commissione sono testimonianza di un europeismo mai ambiguo o «riluttante», per citare l’etichetta affibbiata dall’Economist alla ex cancelliera tedesca.

La moneta, la scommessa di una Costituzione per il continente, l’allargamento con la composizione di geografia, cultura e storia, tutto ciò che la metà tragica del Novecento aveva scisso per generazioni: a ripensarci si trattava di un’agenda potente per ambizione prima che nell’impatto. E qui il professore ha il merito di sollevare l’interrogativo irrisolto da un paio di secoli: ma dove finisce l’Europa? Come precisarne i confini se non ponendoli lì dove si arrestano i valori della sua civiltà?

Peccato non sia riuscito a imporre un confronto tanto strategico all’emiciclo di quel parlamento. In ogni caso nelle brume belghe nasce una “squadra” di qualità, profili eccellenti a incubare un governo politico, ma le radici corporative sono dure da spiantare e così armonizzare la grandeur parigina col peso della Germania unificata è tutt’altro che operazione banale. In altre parole, non si può dire sia stata quella la fase della svolta in economia, basti pensare alla Grecia, anche se già da allora un cambio di passo sembrava più che maturo tanto i parametri erano astratti, rigidi e persino ottusi (sarà il professore a bollare come «stupido» il patto di stabilità).

Per ascoltare il nuovo copione, però, si dovrà attendere il cigno nero della pandemia con l’inversione di rotta più imprevista e repentina culminata da parte della Bce nell’azione di salvataggio dei paesi col maggior debito seguita a ruota dalla rivoluzione di Next generation Eu.

Il traguardo del Pd

L’ultima nota non può che riguardare il Pd e per più di una ragione. Quella essenziale è nella genesi del progetto, direi proprio nella sua ispirazione. A rischio di smentita mi sbilancio: senza Prodi e il suo disegno di riassetto del sistema politico la “creatura” non sarebbe nata.

Già la scelta della lista unitaria dell’Ulivo alle elezioni europee del 2004 aveva sortito qualche timore e perplessità. Ostacoli superati sull’onda della spinta giunta da fuori e che scorgeva nell’investimento una rassicurazione sullo spirito di coesione delle forze alleate, i Ds e la Margherita per prime.

A essere onesti non tutti ritenevano quel passo sufficiente a compiere il successivo, col superamento delle sigle di parte e la convergenza in una nuova identità culturale e simbolica. Prodi immagino di sì, che lo giudicasse possibile e persino doveroso. Ed effettivamente al traguardo si arrivò anche se con tempi e forme impreviste. «Quando Veltroni iniziò a parlare di vocazione maggioritaria, di fatto spinse il governo verso la crisi», così nel libro a pagina 164, e che a pronunciare l’epitaffio sia stato il protagonista o il suo co-autore finisce per risultare secondario.

In quella cornice il nuovo leader sarebbe stato per definizione il futuro candidato premier, ma non servivano esperti per comprendere quanto la convivenza tra un governo di coalizione guidato dal professore e un partito in rampa di lancio nella sfida nelle urne pilotato dal sindaco-segretario si sarebbe rivelata precaria e di scarsa durata. Così fu.

La realtà era quella: che a tre anni a mezzo dalla fine della legislatura la sorte del secondo governo Prodi era ipotecata. Pesavano i due voti di maggioranza al Senato. Ha contato molto la polemica verso i Dico da parte del cardinale Camillo Ruini – era quello il primo tentativo di normare le unioni di fatto tra coppie omosessuali – con la successiva piazza del Family day a cui il professore replicò rivendicando il suo essere un «cattolico adulto» sino alle bizze dei comprimari prigionieri dell’ansia di sopravvivere.

E qui Prodi squaderna alcune verità che non si possono contestare, prima tra tutte l’aver concepito un partito che non nasceva come sviluppo del ceppo ulivista, ma se ne distingueva nel segno anche grafico di un’autosufficienza ostentata. Insomma, l’accelerazione ebbe tra gli effetti il varo di una forza che non aveva scavato le fondamenta per il nuovo edificio, intendo le ragioni ideali, culturali, politiche di una fusione che se da un lato aderì appieno a esigenze di urgenza, dall’altro corrispose molto meno a criteri di rigore col risultato di posticipare la riflessione su quella identità originale che alcuni consideravano superflua dal momento che il soggetto aveva una missione: essere il primo partito post-identitario nella storia del paese (doppio sic).

Colmare i vuoti

Siamo al termine del racconto. E la considerazione finale piega lì dove è sempre rischioso spingersi, nell’ipotetico di ciò che poteva essere e non è stato. Allora, il professore reggiano cresciuto in un ambiente dagli ancoraggi solidi a un anticomunismo mai settario, coltiva a lungo la percezione di partiti prigionieri delle loro certezze, e non tanto sul versante delle culture di riferimento quanto nelle rendite operative e finanziarie.

La franchezza usata da Massimo D’Alema a Gargonza (sede del primo seminario dell’Ulivo dove il segretario della sinistra rivendicò il primato della politica professionale e di partito) aveva lasciato tracce profonde. Sul fronte opposto l’iniziale diffidenza si era tradotta in frattura permanente, come due corsi d’acqua, alimentati entrambi e costretti più che dalla morfologia del terreno da una serie di dighe artificiali a non confluire mai in un unico fiume.

Riassunta così la vicenda, di chi la colpa maggiore, se di colpa si trattò? Ciascuno ad anni di distanza si è fatto una propria idea. Potendo dire la mia, penso che all’epoca i partiti in genere, ma sicuramente il mio, abbiano approcciato la novità più sospinti dall’emergenza politica che da una visione storica. In altre parole sulla ricerca dell’identità prevalse l’ansia del governo e l’ambizione del potere che ne sarebbe derivato. Sull’altro fronte la diffidenza si convertì in sospetto e più avanti sfiducia verso i protagonisti del vecchio assetto politico, ma questo non volersi o potersi “riconoscere” ha prodotto scompensi e prezzi severi nel consenso. Sono vuoti che si possono colmare? In politica i vuoti si colmano, certo. Bisogna vedere come e chi lo fa.

Questo racconto sincero e prezioso di Romano Prodi andrebbe preso come la magnifica occasione per ricomporre alcune di quelle tessere che il tempo ha finito con l’impolverare. In fondo da lui, dal professore, ci viene offerta la possibilità di aprire le dighe per lasciare che finalmente i corsi d’acqua facciano scorrere e alimentino quel fiume grande di un centrosinistra nuovo. Il voto amministrativo va letto anche come incoraggiamento a percorrere questo metodo. Farlo di nuovo “assieme”, altro termine caro al lessico prodiano, non potrà che generare del bene.

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