Il giorno in cui la sindaca di Torino Chiara Appendino si accomodava nella tribuna d’onore dello stadio di Cardiff per assistere alla finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid, era all’apice di una popolarità costruita con accanita volontà, e l’ombra del suo nome si allungava su cariche venture sempre più alte: prossima leader del M5s, prossima ministra, prossima premier. La caduta da quei cieli alla polvere di questi giorni ha i tratti dell’epica e lo stigma della sfortuna, riconosciuta perfino dalla linea difensiva tenuta dai suoi avvocati nel processo che l’ha vista condannata per i fatti di piazza san Carlo (quella stessa sera, a Torino, nella calca scatenata da un gruppo di malviventi che avevano utilizzato dello spray al peperoncino, sono morte tre persone e 1.500 sono rimaste ferite).

L’evocazione della mala sorte camuffata da imponderabile e imprevedibile, nasconde però dinamiche più materiali e umane. La sindaca è l’incarnazione dello “storytelling” totale, armato anche di argomentazioni non secondarie, inventato e attuato ben prima che Rocco Casalino lo applicasse a Giuseppe Conte.

Ascesa trionfale

Chiara Appendino inizia la sua trionfale ascesa nel 2012 appena dopo essere stata eletta consigliera comunale dei Cinque stelle. Lo fa salendo sulle spalle del portavoce di Piero Fassino, Gianni Giovannetti, accusato di guadagnare troppo. È una classica battaglia a cinque stelle. Le sue prime uscite pubbliche sono al fianco di Beppe Grillo durante i comizi che si susseguono nei paesi della cintura torinese, di fronte a piazze gremite di gente venuta a godersi lo spettacolo di cabaret gratuito. Sul palco si agita questa ragazza, che batte e ribatte sul tema dello «scandalo» di Giovannetti. La semplice consigliera di minoranza avanza e si fa sicura, forte di un’umanità genuina, di una preparazione da studentessa prima della classe, nonché di una tigna che la porta a scavare negli “scandali” comunali cavandone titoli di giornali a profusione.

Molto amichevole, distrugge con un sorriso che cela il piglio machiavellico la concorrenza interna, nessuno è alla sua altezza, e si pone all’apice di una macchina social che in due anni si sposta sul piano del reale, attraendo centinaia di attivisti dalla provenienza ideologica molto diversa, molto accesa e molto negata. Il consenso verso Appendino, forte di un messaggio differenziato e calibrato, nel 2016, anno della sua elezione a sindaca, va dagli Elkann ai No Tav, ma trova il suo apice nelle periferie torinesi, dove si impone con una retorica di classe: «Ci sono i ricchi in centro città, ci sono i poveri qui tra questi palazzi sgangherati, e io sono qui con voi. Votate per me». Dopotutto pare che prima del M5s frequentasse le riunioni delle “Fabbriche di Nichi”. Il 19 giugno, la notte della vittoria, i suoi entrano nel palazzo del comune sventolando la bandiera No Tav e urlano rabbiosi il fatidico canto di guerra “onestà, onesta!”. Il giorno dopo cambia tutto.

La svolta

È probabilmente in quei momenti di grazia che la sindaca si rende conto che la bella favola «non esiste la destra, non esiste la sinistra, esistono solo le cose buone» è, alla prova del governo, solo una favola. In poco tempo vengono abbandonati gli afflati No Tav e subentrarono tre linee di azione: la svolta securitaria in periferia fatta a suon di sgomberi e telecamere nelle strade, apprezzatissima dai vari comitati di quartiere di destra; la lotta fondamentalista e vincente per riportare i conti del comune in ordine o quasi e, ultimo, la rivoluzione nel trasporto locale con lo sviluppo di una imponente infrastruttura ciclabile che le porta un forte sostegno da parte del mondo, numericamente non indifferente, a due ruote.

Poi c’è il resto. Le Olimpiadi in versione “low cost”, prima sì, poi nì, poi no perché ci sono Milano e Cortina, rischiano di far saltare la sua maggioranza e spedirla a casa. Si rifà aggiudicandosi l’assegnazione delle Atp Finals di tennis per cinque anni, ma si azzuffa con il suo vicesindaco Guido Montanari, cacciandolo, a causa del Salone dell’auto che si svolge in un parco cittadino. La sua capacità di rimuovere senza batter ciglio gli assessori diviene nel tempo un tratto spietato e mediatico, sottolineato con i toni perentori di una zarina.

Tesse buoni rapporti che il mondo Fiat e il sistema bancario, senza il quale il welfare di Torino collasserebbe, e ingaggia una dura lotta con i commercianti del centro per l’allargamento della zona a traffico limitato, uscendone sconfitta. Tenta di attrarre capitali privati con ogni mezzo e di estrarre valore dal territorio e dalle società partecipate del comune – per far quadrare i conti tenta perfino l’impensabile nel mondo cinque stelle: la privatizzazione totale della società che detiene l’inceneritore, la Trm – ponendosi in continuità con le precedenti amministrazioni.

Il fortino

La sua svolta politica nasce e si sviluppa all’interno di un fortino dove spiccano due plenipotenziari mai visti prima, tale Luca Pasquaretta, addetto stampa detto il “bulldog”, e Paolo Giordana, già consigliere speciale della sindaca quando era consigliera comunale, che iniziano a spadroneggiare malamente: la trascineranno in guai di ogni genere, mentre il battaglione di attivisti si svuota di fronte alle porte dell’agognata agorà permanente che si chiudono.

Nel primo anno arrivano i successi ma da quella notte di Cardiff iniziano i problemi, a volte giudiziari, quasi sempre politici perché nella sua maggioranza la perdita delle origini non viene tollerata. Il processo Ream le costa una prima condanna a sei mesi. Poi arriva piazza san Carlo ed è la perdita di ogni speranza per un miracolo sperato fino all’ultimo. Perché Appendino sperava su due assoluzioni, le elezioni amministrative spostate causa pandemia all’autunno, il grande rientro e il trionfo grazie ai bagni di popolarità quasi quotidiani, fatti mentre va a fare la spesa nei mercati rionali o a inaugurare un giardinetto. Il tutto spinto dai canali social che negli ultimi tempi hanno abbandonato il tratto istituzionale e sono tornati alla narrazione della ragazza della porta accanto. Invece sono arrivate le condanne e la decisione, in parte obbligata dalle regole del M5s, di non ricandidarsi.

Dopo di lei nella Torino a cinque stelle resta il vuoto. Un partito orfano di una figura di vertice incontrastata, indeciso se puntare su un’alleanza con il Partito democratico alle prossime amministrative per salvare la ghirba, oppure scegliere la spinta identitaria. I nomi per la successione alla sindaca sono tre: la ministra Paola Pisano, molto amata a Roma dai vertici e molto detestata a Torino dalla base, e due fedeli scudieri, Alberto Unia, assessore all’Ambiente, e Valentina Sganga, capogruppo del M5s.

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