L’analisi della sconfitta di un gruppo dirigente nella bufera con buone probabilità sarà trasmessa in streaming, e non resterà chiusa – si fa per dire – nell’aula della direzione del Pd. La decisione non è ancora presa ma al momento al Nazareno prevale l’idea che la direzione di giovedì 6 settembre non sia un’occasione “normale”, quelle in cui fin qui in chiaro è stata ascoltata solo la relazione del segretario Enrico Letta. Segretario uscente ma non dimissionario. Ma questa è solo la minore delle molte incertezze che gravano sulla giornata più difficile per il Pd, dopo la notte fra il 25 e il 26 settembre.

Il nodo più delicato è quello dei tempi con cui si svolgerà la ripartenza che lì chiamano «rigenerazione» per scongiurare lo spettro della scissione. Non è un dettaglio burocratico: Letta ha fatto la proposta di un «congresso costituente», cioè rifondativo, ma al Nazareno viene spiegato che ovviamente non è «una proposta chiusa» e dovrà essere approvata dalla direzione. Ma il parlamentino Pd su questo è diviso: ma è come dire su tutto, o quasi.

Da una parte c’è l’ala sinistra, quella che ha a capo Andrea Orlando, che chiede una riflessione approfondita, tradotto con tempi più distesi di quelli che detta lo statuto. Il ministro chiede di partire da «lavoro, salari, disuguaglianze» perché «nei prossimi mesi in alcuni settori dell'economia si realizzeranno utili record, in altri imprese e lavoratori rischiano la rovina a causa dei costi dell’energia e dei trasporti».

Orlando squaderna i numeri delle differenze sociali: «L’Italia è l’unico Paese Ocse con riduzione di stipendio nel periodo 1990-2020; nel periodo 2006-2017, i working poor sono passati dal 10,3 per cento al 13, della forza lavoro, con picchi tra i lavoratori autonomi (17 per cento) e part-time (19,4); Carlos Tavares, ceo di Stellantis, nel 2021 ha percepito 19,10 milioni di euro e guadagna 758 volte quanto un suo metalmeccanico». Numeri che spiegano, nell’idea di Orlando, che il Pd deve più chiaramente e concretamente schierarsi sulla battaglia contro le diseguaglianze. Ergo, il congresso non può avere il passo di un appuntamento ordinario.

La “chiamata” e i “chiamati”

Lo pensano anche gli alleati che sono stati “chiamati” da Letta a partecipare alla rifondazione, e ai quali verrà offerto il cambio del simbolo con quello con cui il partito è andato al voto (Pd- Italia democratica e progressista). Art.1 deciderà che fare alla direzione dell’8 settembre, dopo aver capito se la proposta del Pd è quella di Letta. Ma per entrare a pieno titolo nel dibattito congressuale – leggasi, prendere la tessera – deve essere molto visibile quello che per anni Bersani ha definito «big bang» e che ora Roberto Speranza chiama «profondo ripensamento» del Pd opposto alla «semplice conta ai gazebo».

Gli altri “chiamati” hanno anche qualche dubbio in più. Forse non Elly Schlein, ma sicuramente ma i socialisti del Psi, che pure erano stati accolti nelle liste del Pd (ma non hanno eletto il loro unico candidato, il segretario Enzo Maraio), guardano l’operazione con perplessità: una cosa è partecipare alle Agorà, altra sciogliersi nel partito “protettore”.

È lo stesso dubbio di Demos. Anche perché, è il ragionamento, Letta ha garantito un certo gradiente di accoglienza alle tematiche sociali del piccolo partito che ha eletto Paolo Ciani: farà lo stesso il nuovo segretario?

Marzo al massimo

«Ascolteremo la proposta di Letta», sospirano dall’altro lato quelli di Base riformista. Il portavoce Alessandro Alfieri chiede che il Pd elegga «in tempi certi una leadership forte e autorevole anche perché siamo sotto attacco, da parte del Terzo Polo in particolare». Del resto non è immaginabile un Pd che parla di sé stesso durante tutto l’avvio del governo della destra. «Non è questione di impuntature», viene spiegato, «ma non possiamo tenere aperto un congresso per otto mesi». Le primarie non si potranno spingere oltre marzo.

Dopo non è consigliabile, ci sono le amministrative. Prima anche meno, per un altro dei guai che complicheranno l’uscita di scena di Letta: il Lazio sarà la prima regione ad andare al voto, fra fine gennaio e i primi di febbraio (dopo tocca alla Lombardia).

Roma o Lazio

Matteo Renzi e Carlo Calenda (LaPresse)

Fin qui l’alleanza con M5s era un dato praticamente acquisito: già oggi governa con il Pd nella giunta Zingaretti. E convintamente: basti pensare che nei due giorni scorsi a Roma, l’assessora Roberta Lombardi ha presieduto un’assemblea civica sul «piano regionale di transizione ecologica». Eppure ieri il vicepresidente grillino Michele Gubitosa ha lanciato l’avviso: «Non faremo alleanze».

Dall’altro lato del Pd, quello destro, le cose non vanno meglio: ieri pomeriggio Carlo Calenda e Matteo Renzi si sono chiusi nel primo faccia a faccia post voto. Fra i temi, le prossime regionali: il leader di Azione fin qui aveva detto di voler confermare il «modello Lazio» (anche Azione è in maggioranza alla Pisana).

Ma ieri ha fatto capire che anche a livello locale ripeterà lo schema che già a livello nazionale ha portato alla vittoria della destra: «Non facciamo un’alleanza con il M5s perché riteniamo che quel modo di fare politica sia molto lontano da quello che serve al paese. Sarà il Pd a dover scegliere».

All’uscita del confronto i renziani hanno spiegato che ancora la questione delle alleanza non è chiusa: «Sulle regionali ogni decisione verrà presa insieme a tempo debito». 

Per il Pd non sarà una passeggiata di salute. Il segretario regionale Bruno Astorre chiede di armarsi di «pazienza, tenacia e umiltà», per «confermare il programma e la coalizione e continuare il modello Lazio», «Se teniamo il confronto sul livello locale, se partiamo dalle cose da fare, sono convinto che troviamo una quadra. Sono ottimista e fiducioso». Ma certo, ammette, «per sposarsi bisogna essere in due, in questo caso siamo in tre ed è un po’ più complesso».

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