«C’è una nuova maggioranza qui e nel paese, non di sinistra». La fotografia è scattata a caldo, ma ha i contorni nitidi. A farla è Ignazio La Russa (FdI), uno dei protagonisti dell’impallinamento della legge Zan ieri al Senato, mentre trattiene a stento una rumorosa allegria per il colpaccio così ben riuscito.

I numeri ribaltano i calcoli che fino all’ora di pranzo partivano dagli smartphone del Senato verso la sede del Pd, messaggi del tipo «siamo 149 a 140, sulla carta ci siamo». Ma la possibilità del naufragio era già stata messa in conto, «altrimenti qualcuno dovrà assumersi la responsabilità». La sconfitta non è un bel colpo per Enrico Letta, che sulla legge Zan aveva «messo la faccia» dal primo giorno della sua segreteria. D’altro canto sui sì raccolti in aula il segretario può fondare il suo nuovo centrosinistra.

La tagliola

Comunque la legge Zan non c’è più: per quanto il suo estensore inviti le associazioni «a non demoralizzarsi» il risultato del voto sulla “tagliola” inventata da Roberto Calderoli è temporaneamente definitivo. Uno stop in teoria di sei mesi, dopo il quale il tema (non il testo) si potrebbe riprendere, ma in teoria.

È spazzata via la norma che prevedeva «misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità» approvata a novembre scorso alla Camera. In aula, contestando il voto segreto concesso dalla presidente Casellati, il senatore Pd Luigi Zanda ha spiegato che «nessun altra legge contro l’omofobia vedrà la luce in questa legislatura». «L’Italia si allinea con Orbán», dice Monica Cirinnà.

Finisce con 154 favorevoli al «non passaggio agli articoli» della legge, solo 131 i contrari, due astenuti. Per i sostenitori della Zan mancano all’appello 23 voti. Calcoli che però si complicano se si tiene conto che da destra è arrivato un aiutino (due senatrici di Forza Italia). E poi ci sono le assenze: anzi c’è soprattutto Matteo Renzi. Che non c’è. È atteso a Riad, al convegno La cultura salva il mondo del Fii Institute, ospite del principe bin Salman. Un’assenza che dice dello scarso investimento di Italia viva sulla legge.

E poi Pier Luigi Bersani: «Sul ddl Zan oggi al Senato un colpo molto grave ai diritti e temo una prova generale per il quarto scrutinio per il Quirinale». È la soddisfazione che circola fra i renziani: che apertamente negano di essere stati fra i franchi tiratori, riservatamente gongolano per la «conclamata incapacità di Letta e Conte di reggere i propri gruppi».

Secondo questa versione, Renzi si sta accordando con la Lega per un nome al Colle, tagliando fuori i leader di Pd e M5s (si parla di Pier Ferdinando Casini). Forza Italia in questa fase segue la Lega, per ordine diretto di Silvio Berlusconi, descritto come convinto di avere chance per il Quirinale.

Ma Iv, con le sue dodici presenze, non basta ad arrivare alla ventina di voti mancanti. Come nei 101 che hanno fermato la corsa al Colle di Romano Prodi nel 2013, anche qui le pugnalate segrete hanno diverse mani. Lo spettacolo delle accuse reciproche è poco edificante, secondo solo all’esultanza di Lega e Fratelli d’Italia.

A nome dei dem è Alessandro Zan ad accusare Italia viva: «Una forza politica si è sfilata dalla maggioranza che c’era alla Camera e ha flirtato con la destra sovranista, inoltre Forza Italia si è compattata con la destra sovranistra dimostrando di non essere una forza liberale vicina ai diritti».

Iv e FI, due questioni spinose per il segretario Letta impegnato in un allargamento al centro del centrosinistra. Italia viva si discolpa a più voci (l’ex ministra Teresa Bellanova, che in realtà arriva in aula in ritardo richiamata all’ordine dallo stesso Zan, e il capogruppo Davide Faraone). A sua volta accusa i Cinque stelle. «No», è la risposta secca di Giuseppe Conte alle domande dei cronisti su possibili franchi tiratori M5s. Il mirino si sposta verso il gruppo misto da dove sono mancati 5-6 voti di ex grillini. Uno o due dissensi dal gruppo delle autonomie.

Il Pd merita un discorso a parte. La senatrice Valeria Fedeli, la più scettica sulla Zan, dopo il voto esce dall’aula chiedendo a gran voce le dimissioni di «chi dirige il gruppo e la commissione Giustizia», ovvero Simona Malpezzi e Franco Mirabelli. Poi smentisce. Andrea Marcucci, l’ex capogruppo rimosso da Letta: «Una strategia fallimentare, bisognerà riflettere».

Letta accusato

Il segretario Pd viene accusato o di aver trovato la sconfitta per insipienza; o di averla cercata per calcolo politico: per incolpare Renzi del fallimento della legge contro l’omofobia.

A sua volta Renzi, da Riad, con i suoi si scarica senza complessi di ogni responsabilità e si vanta di quella che evidentemente percepisce come una vittoria e una dimostrazione della sua scienza politica: «Per mesi ho chiesto di trovare un accordo per evitare di far fallire il ddl Zan. Hanno voluto lo scontro e queste sono le conseguenze. Chi polemizza sulle assenze dovrebbe fare i conti con i 40 franchi tiratori. La responsabilità di oggi è chiara: e dire che per Pd e Cinque stelle stavolta era facile, più facile dei tempi di “o Conte o morte”. Non importava conoscere la politica, bastava conoscere l’aritmetica».

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