«Il gruppo è unito», «compatto in vista dei prossimi impegni». Alla fine dell’assemblea convocata all’alba e a porte blindate, sbarrate anche ai collaboratori e ai funzionari nell’ingenua speranza che gli acuti restino custoditi dentro la sala Zuccari, la maggioranza dei senatori del Pd la racconta come la storia dei musicanti che vanno a suonare e finiscono suonati.

Tradotto: la riunione («tardiva» secondo Valeria Fedeli, una delle più scettiche sul ddl Zan e sulla tattica scelta per portarlo a casa) nasce di fatto per tentare il processo a Enrico Letta, il segretario della linea della fermezza sulla legge abbattuta dal voto segreto.

Il leader è attaccato per interposta Simona Malpezzi, la capogruppo che, pur provenendo dalla corrente Base riformista, è accusata – apertamente solo da una manciata di suoi compagni – di essere troppo ligia alla linea del Nazareno.

Ma Letta è un segretario saldamente in sella, per ora. Supermedia Youtrend danno il Pd come primo partito, con il 20,1 per cento, vetta mai toccata dopo il 2018. E sarà Letta, almeno fino a contrordine, a fare le liste delle future politiche. Quindi la conclusione dell’assemblea è, secondo la versione riferita a più voci, che gli accusatori restano isolati.

La corrente Base riformista si spacca e la maggioranza del gruppo si schiera con il segretario e la presidente. In effetti Malpezzi alla fine della sua relazione chiede «il rinnovo della fiducia». Riceverà un caldo applauso di conferma.

Tutto bene; se non fosse che nella storia del Pd ci sono applausi, persino ovazioni un minuto prima di infidi agguati. Del resto la vera conta è quella di cui non si parla: di chi sarà fedele alle indicazioni del leader al momento delle votazioni per il Colle.

I franchi tiratori

Marco Alpozzi

C’è un’altra conta che non si fa: i numeri sulla Zan dicono che di quest’assemblea fanno parte alcuni franchi tiratori. Quattro o cinque, a seconda del pallottoliere. Ma su 28 interventi, alcuni molto critici, non arriva nessun coming out. Si parla poco anche di Italia viva, accusata di voltafaccia dal segretario. «Iv ci ha traditi», sentenzia Bruno Astorre. Ma Malpezzi assicura che il voto sulla Zan «non segna il perimetro delle alleanze».

Malpezzi e compagni respingono le accuse di mancanza di autonomia del gruppo, difendono la linea tenuta, quella di essere (alla fine per la verità) disponibili alle modifiche ma non a «votare un testo discriminatorio», come quelli che proponevano Forza Italia e Iv, «la destra non ha mai voluto mediare altrimenti avrebbe tolto la tagliola».

Risponde al «nervoso» che ha provocato a qualcuno la presenza del deputato Alessandro Zan al senato nelle ultime fasi concitate del testo. Andrea Marcucci e Fedeli parlano di «commissariamento», la replica è che Zan «aveva la funzione di garantire al movimento Lgbt che non ci sarebbe stata nessuna svendita».

Il capofila dei critici è Marcucci, l’ex capogruppo rimosso da Letta, che accusa di «gestione fallimentare». Critici anche Salvatore Margiotta, Luciano D’Alfonso e Tommaso Cerno, con toni più soft, Stefano Collina e Alan Ferrari, fra quelli che parlano. Anche Tommaso Cerno Vincenzo D’Arienzo «si interroga» ma poi nella chat dei senatori parla di «ribrezzo» per chi lo colloca «tra i contrari» alla linea Letta.

Fedeli avverte che «nelle piazze c’è sempre del populismo», «Siamo stati popolari, non populisti» risponde Franco Mirabelli, capogruppo in commissione giustizia. «La battaglia è stata combattuta bene», per Monica Cirinnà, madre delle unioni civili e ufficiale di collegamento con il mondo raimbow, «il Pd ha rafforzato la sua identità, costruendo consenso all’interno e all’esterno. La nostra fermezza è stata possibile dall’interlocuzione costante con il movimento Lgbtq+».

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