Più Corrida di Corrado che Sfida all’O.K. corral. Insomma, più scene da dilettanti allo sbaraglio nella maggioranza che un regolamento di conti nel centrodestra come qualcuno andava inizalmente ipotizzando. Nel giovedì nero del governo Meloni alla Camera, Palazzo Chigi ha stilato informalmente una classifica di chi ha sbagliato più forte, e i cima alla lista sono stati vergati i nomi dei capigruppo, insieme a quello del ministro dei Rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, e delle sottosegretarie, la leghista Giuseppina Castiello e la forzista Matilde Siracusano.

Il voto disastroso sullo scostamento di bilancio ha lasciato il segno. Facendo i conti alla maggioranza, che si è fermata a quota 195, sono mancati 45 voti totali, ma ne sarebbero bastati sei per portare a casa il risultato. Tra missioni non meglio specificate, dispersi tra impegni precedenti e assenze last minute, è mancato all’appello un cospicuo numero di deputati. E sul banco degli imputati sono finiti Paolo Barelli di Forza Italia, Tommaso Foti di Fratelli d’Italia e Riccardo Molinari della Lega, presidenti dei rispettivi gruppi incapaci di tenere sotto controllo i colleghi.

Che la catena di comando non abbia funzionato è evidente. Il centrodestra ha lasciato a presiedere la seduta Fabio Rampelli di Fdi, e non un esponente dell’opposizione, perdendo così un ulteriore voto. Non era decisivo, ma rende l’idea della sciatteria con cui è stato gestito il dossier.

Le bracciate di Barelli

Il capogruppo azzurro Barelli figurava tra gli assenti, ufficialmente in missione. Si è giustificato spiegando di aver prenotato una visita radiologica non rimandabile. Le indiscrezioni di palazzo raccontano che si trovava a Montecitorio, circa un’ora prima del voto, a un incontro a cui presenziava pure il ministro degli Esteri, Antonio Tajani. A completare la Waterloo dei forzisti è stata l’assenza del vicecapogruppo vicario, il numero due ufficiale, Raffaele Nevi.

Barelli però non è un novizio. Era già stato capogruppo a Montecitorio nella parte finale della scorsa legislatura. Nel nuovo parlamento Forza Italia aveva però puntato su Alessandro Cattaneo. Barelli, abituato alle luci delle ribalta, non si trovava a proprio agio nelle mansioni di deputato semplice e presidente della Federnuoto. Così, in asse, con Tajani è riuscito a riprendersi il proprio ruolo: Cattaneo è stato tacciato di eccesso di ronzullismo, troppo vicino a Licia Ronzulli, ed è stato rimosso d’imperio con una nota di Silvio Berlusconi.

Alla prima prova, però, le bracciate dell’uomo forte del nuoto tricolore sono risultate deboli. Logica la conseguenza: ieri mattina prestissimo Barelli ha ricevuto il buongiorno – si fa per dire – da Luca Ciriani, il ministro dei Rapporti con il parlamento alquanto adirato. Gli ha chiesto spiegazioni sulla sua assenza e sul perché mancassero ben 14 deputati di FI su un totale di 44: uno su tre. Ciriani ha scaricato un bel po’ di tensione sull’indiziato numero uno del naufragio parlamentare sullo scostamento di bilancio. Ne aveva bisogno il ministro, visto il pomeriggio e la nottata trascorsi sulla graticola.

Molinari smemorato

Le distrazioni di FI non mitigano però il giudizio di Meloni e del suo fedelissimo Giovanbattista Fazzolari sull’operato di Ciriani, che è stato capogruppo di FdI al Senato nell’ultima legislatura, non proprio un figurante. Avrebbe dovuto lui per primo intuire cosa stava accadendo. Il ministro ha spiegato ai vertici del governo di aver allertato la maggioranza della necessità di presidiare l’aula, mandando sms, facendo telefonate e inviando delle mail. Un pressing comunque inefficace.

Per questo a palazzo Chigi si fa fatica a nascondere la rabbia. Ai Rapporti con il parlamento sono stati piazzati Ciriani e due sottosegretarie, Castiello e Siracusano, proprio per avere sempre qualcuno a gestire questo tipo di situazioni. In ogni caso l’ipotesi di possibili dimissioni del ministro è stata smentita.

Anche perché non meno responsabile è Molinari, capogruppo del partito (la Lega) che percentualmente con Forza Italia ha palesato più assenti. Certo ieri, poco prima delle votazioni necessarie per riparare all’errore di giovedì, ha almeno avuto l’onestà di prendersi «la sua quota di responsabilità», salvo poi trovare una scusa dai tratti grotteschi. «Questa è la conseguenza nefasta della furia iconoclasta del taglio lineare dei parlamentari», ha detto. Peccato che Molinari abbia votato a favore della riduzione del numero di eletti in tutti i quattro passaggi. Lo ha fatto dalla poltrona di capogruppo che tuttora occupa.

L’impressione è che più che colpa del taglio sia stata una sua svista sugli assenti leghisti: 15 in totale tra missioni e non partecipanti. In questo quadro Foti, presidente dei deputati di FdI, ha inanellato un altro scivolone palesando la confusione in cui è piombato. Forse per creare un diversivo se l’è presa con le «assenze» dell’opposizione e ha attaccato Debora Serracchiani.

Anche stavolta il neo capogruppo, ruolo che ricopre per la prima volta nonostante una lunga carriera parlamentare (è stato eletto per la prima volta nel 1996), ha fatto rimpiangere il suo predecessore Francesco Lollobrigida approdato nel frattempo al ministero dell’Agricoltura.

Vendetta della Camera

Su un punto c’è però accordo all’interno della maggioranza: dietro il flop sul Def non c’è nessun messaggio politico. «Un inciampo lungo che pare legato al ponte e alle ferie. Ecco: un ponte sullo stretto del Def», lo definisce con ironia Pino Pisicchio, docente di diritto pubblico all’Unint di Roma, e grande conoscitore delle trame parlamentari avendo frequentato Montecitorio per sei legislature.

«Non mi farei ispirare – aggiunge l’ex deputato – da retroscenismi o ipotesi complottarde. Si è trattato di uno scivolone di primavera, finite le piogge alluvionali il richiamo del sole e delle scampagnate fuori città ha avuto il sopravvento».

Un rovescio che sarà pure privo di messaggi politici, ma che trascina con sé un fatto nuovo in questa legislatura. Il parlamento, costretto a vivere nell’ombra, si è vendicato, involontariamente, delle continue mancanze di rispetto da parte del governo. Tra una fiducia e l’altra, i deputati hanno ricordato a Meloni che chi siede sugli scranni di Montecitorio o di palazzo Madama detiene ancora, parafrasando il Jep Gambardella di Paolo Sorrentino, «il potere di far fallire le leggi». Anche se, come punizione, è stata inflitta una nuova forzatura: il voto sullo scostamento di bilancio ripetuto in poche ore dopo un passaggio minimale in Consiglio dei ministri.

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