«Nel cambiare Conte con Draghi abbiamo salvato l’Italia e salvato il Pd che dovrebbe farci un monumento. Stavano andando a sbattere due volte: nel 2019 quando volevano andare a votare e avrebbero regalato il paese a Salvini e quando erano sotto incantesimo di Conte e dicevano “o Conte o morte”. Oggi il Pd può giocare la partita grazie a noi: siamo la Fatebenefratelli della politica. Abbiamo fatto il bene del paese e del centrosinistra». Da Anzola, in Emilia, dove presenta il suo libro, persino Matteo Renzi deve prendere atto, magari in maniera un po’ contorta, che alla vigilia del voto il Pd è un cavallo piazzato, anzi vincente. Al comizio di chiusura a Cortona Enrico Letta promette che da lunedì «il Pd sarà il primo partito politico italiano». Un azzardo, che però viene incoraggiato dai sondaggi che rimbalzano sugli smartphone, e che da domenica scorsa è vietato rendere pubblici. Ci sono quelli che con stratagemmi spiritosi e allusivi (la pizza, il bus che va a Bicocca, le fermate di un pullman romano) prevedono il successo al primo turno dei candidati del centrosinistra di Napoli Gaetano Manfredi e di Milano Beppe Sala, e il passaggio al secondo turno per quello di Roma Roberto Gualtieri. Altri, stavolta segretissimi perché commissionati dalle forze politiche, sono lusinghieri persino per il candidato di Torino Stefano Lo Russo, che fino a qualche giorno fa non era dato per favorito.

In queste ore il Pd allestisce due quartieri generali. Entrambi apriranno le porte lunedì all’ora di pranzo, uno in un albergo di Siena, dove sarà Letta che lì è candidato alle suppletive; l’altro alla sede nazionale del Nazareno a Roma, dove aspetteranno i risultati i due vicesegretari Peppe Provenzano e Irene Tinagli e il responsabile enti locali Francesco Boccia. Da una parte e dall’altra circolano raccomandazioni di massima cautela. Vietato credere ai sondaggi, farsi illusioni prima del tempo e dare l’idea di avere già vinto. Quattro città sulle cinque grandi che vanno al voto per Letta «sarebbero un trionfo». Ma dentro quel risultato bisognerà guardare con attenzione ai numeri: se Gualtieri va al ballottaggio a Roma, bisognerà valutare i pesi specifici dell’elettorato di Virginia Raggi e Carlo Calenda. A Napoli, laboratorio dell’alleanza giallorossa, il rischio è che il successo della lista Cinque stelle ammacchi quello del Pd. C’è anche una “questione di sinistra”: in tutte le città, in formazioni variabili, si pesano liste che potrebbero un domani convergere in un’area nazionale alleata al Pd e alla sua sinistra: è il caso senz’altro della bolognese Coalizione civica-Coraggiosa, della romana Sinistra civica ecologista e della napoletana Napoli solidale. Un processo solo in parte intercettato dalle «agorà democratiche» e guardato con molta attenzione anche dal Nazareno.

La sfida alla Lega

Da lunedì si vedrà. Certo è che Letta gode di quello che ai tempi di Romano Prodi veniva chiamato «fattore C». In altre parole la fortuna a questo giro conta molto. E la fortuna del Pd è il terremoto che si è scatenato destra. La Lega è squassata dal caso Morisi, l’ex capo della “Bestia” comunicativa di Matteo Salvini; e i Fratelli d’Italia sono piegati dal caso Fidanza, l’eurodeputato presuntamente pronto, secondo un’inchiesta di Fanpage, a prendere finanziamenti irregolari. La competizione interna fra i due partiti era già durissima prima, e i candidati di Milano, Roma, Bologna e Napoli ne hanno fatto le spese durante la campagna elettorale. Ma ora si è trasformata in sfida fra due partiti diversamente e parallelamente ridotti alla disperazione, a dispetto della «pace» siglata venerdì sera davanti alle telecamere dai due leader Salvini e Meloni. Che è giusto una tregua di poche ore: il primo il giorno dopo lo scrutinio vedrà ballare la sua leadership, la seconda si vede scivolare via dalla plancia di comando della coalizione.

Letta vuole approfittare subito del successo elettorale, se arriverà, per rafforzare il Pd nella maggioranza. «Penso che dopo il voto vada fatto un ragionamento di chiarezza su che Lega è quella che sta al governo. Credo sia utile per tutti e anche per Draghi». Il segretario non pronuncia le parole «verifica di governo», che fanno molto Prima Repubblica. Ma il senso è quello: costringere palazzo Chigi a chiedere un gesto di chiarezza che divida il Carroccio. Difficile illudersi che la Lega lascerà il governo, ma certo dovrà restare in maggioranza in posizione più debole. Il Pd potrà consolidarsi come forza più affidabile per il premier. Cosa che a Letta fa buon gioco anche all’interno del proprio partito, per tacitare la corrente di Base riformista, il «partito di Draghi» dentro il Pd, che fin qui lo ha accusato di essere tiepido con il presidente del consiglio. Un’area in via di sgretolamento, che dovrà mandare giù il successo – in un modo o nell’altro – dell’alleanza con i Cinque stelle. Questo per Letta, insieme alla ostentata certezza che chiunque vada al Colle le elezioni saranno nel 2023, è la garanzia che la segreteria del Pd resterà salda nelle sue mani. Con un congresso convocato a tamburo battente o, più ordinatamente, senza alcun congresso fino a scadenza naturale del suo mandato, nel marzo del 2023.

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