È tutto un litigio continuo, uno scambio di accuse che va avanti da mesi, salvo interruzioni dettate da fatti epocali, come la guerra in Ucraina. Luigi Di Maio contro Giuseppe Conte. E viceversa. Il ministro degli Esteri non sopporta più l’ex presidente del Consiglio e critica la strada su cui sta portando il Movimento 5 stelle.

Proprio quell’uomo, l’avvocato pugliese, che l’ex capo politico del M5s ha portato al potere, incensandolo. Creando una figura politica ibrida, tecnica e populista allo stesso tempo: l’avvocato del popolo. Insomma, Di Maio prima ha costruito il personaggio Conte, definito una «perla rara», e ora se ne lamenta. Una riedizione del vecchio adagio “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.

L’ascesa di Conte è infatti legata a doppio filo proprio al ministro degli Esteri, che lo ha voluto, difeso e rilanciato anche al costo di far saltare l’accordo con il Partito democratico nell’agosto del 2019. Non ha mai rinnegato il fatto che fosse una «sua scelta». Anzi se ne vantava.

Il nodo del terzo mandato

Su entrambi arrivano gli strali di Beppe Grillo: «Appare sempre più opportuno estendere l’applicazione delle regole che pongono un limite alla durata dei mandati», ha scritto il fondatore del M5s sul suo blog, chiudendo all’ipotesi di un terzo mandato, ma lasciando spazio a quella del due più due, ovvero la possibilità di essere eletti per due anni in un’istituzione, come il parlamento, e due in un’altra, come i comuni. 

«Sono più importanti le regole che favoriscono i cambiamenti di quelle che favoriscono le (vere o presunte) Grandi Visioni di (veri o sedicenti) Grandi Uomini. Fra queste regole ci sono quelle che favoriscono il ricambio dei gestori prima che le imprese collassino».

Parole che suonano come una bocciatura definitiva, soprattutto per Conte, ma allo stesso tempo anche per Di Maio. Deputati e senatori vicini ai due sono per la maggior parte al secondo mandato, quindi non potrebbero ricandidarsi. Ma è soprattutto l’entourage di Conte a essere in allarme, come la vicepresidente Paola Taverna e il ministro dei Rapporti con il parlamento, Federico D’Incà, entrambi al secondo giro.

Il peccato originale

Nella carriera politica di Di Maio, guardando ai suoi problemi attuali, c’è un peccato originale. Occorre fare un balzo indietro nel tempo, al 2018, quando i Cinque stelle presentarono, prima delle elezioni, la lista dei ministri che avrebbero consegnato al presidente Sergio Mattarella, in caso di vittoria.

Giuseppe Conte era stato designato come ministro della Pubblica amministrazione, con il compito principale di sburocratizzare l’Italia. In seguito al voto del 4 marzo, il Movimento ha dovuto trattare con Matteo Salvini per la formazione del governo e cercare l’intesa sul nome del premier da mandare a palazzo Chigi. La scelta è caduta proprio su Conte, dopo aver scartato varie candidature, tra cui quella dell’economista Giulio Sapelli.

Ad avanzare il nome di Conte fu Alfonso Bonafede, grande sponsor del professore di Diritto dell’Università di Firenze, con la spinta decisiva di Di Maio. Fu lui a proporlo alla Lega come soluzione ideale. La trovata dell’ex capo politico dei Cinque stelle ha portato in auge, Conte, praticamente uno sconosciuto, che comunque all’insediamento del governo gialloverde aveva il 58 per cento di gradimento, secondo un rilevamento di Swg per La7 di allora.

È stato visto come una novità, apprezzata da un elettorato che nemmeno lo conosceva. Così per un anno i due sono andati a braccetto: Di Maio sotto le luci dei riflettori da capo politico e Conte presidente del Consiglio. Protetto dai Cinque stelle e, al tempo stesso, succube. È scolpito nella memoria il momento in cui, il 7 giugno 2018, il presidente del Consiglio chiedeva a Di Maio, durante un suo intervento alla Camera, «Posso dire che…?», ricevendo un perentorio «no» dal ministro che gli sedeva accanto.

Difesa a oltranza

25/10/2019 Narni. Il Governo sceglie l'Umbria - in campagna elettorale per le regionali - per presentare la manovra finanziaria. Nella foto Roberto Speranza LeU, Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio leader M5S, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte

Nel momento in cui l’alleato Salvini ha iniziato a sfilarsi dal governo, dal Papeete in poi, Di Maio ha fatto da scudo a Conte. Un post su Facebook dell’1° agosto 2019 ha avuto un significato simbolico: l’allora vicepremier ha postato su Facebook una foto in cui c’era lui, insieme a Riccardo Fraccaro, Alfonso Bonafede e ovviamente Giuseppe Conte, scrivendo: «Dobbiamo governare? Bene, facciamolo con serenità e trasparenza. Se qualcuno invece ha in mente altro, lo dica tranquillamente».

«Penso che possiamo fare tanto con questo governo, ma ci deve essere la volontà politica da parte di tutti. Da parte del Movimento 5 stelle c’è!», ha aggiunto. Insomma, il suo M5s era tutto proteso a difendere il numero uno di palazzo Chigi.

Qualche settimana dopo c’è stato addirittura un rilancio di comunicazione e un endorsement politico a tutto campo. «Caro Giuseppe, oggi è un giorno importante. (…) Sei una delle scelte di cui vado più fiero nella mia vita. Sei una perla rara, un servitore della Nazione che l’Italia non può perdere. Forza amico mio!». Era il momento in cui la Lega ha sfiduciato “Giuseppe”, archiviando l’esperienza del governo tra Lega e Movimento.

Il secondo governo

Con la fine del primo governo Conte, la carriera politica del presidente del Consiglio sembrava al capolinea. Il livello di gradimento era calato al 33 per cento, anticamera dell’oblio. Ma Di Maio cosa ha fatto? Si è impuntato sul nome di Conte come premier dell’esecutivo con il Partito democratico.

In una telefonata con l’allora segretario del Pd, Nicola Zingaretti, l’attuale capo della Farnesina fu tranchant: «Conte è il nostro candidato. Fate voi». Un aut aut. La storia è nota: il Pd ha accettato, addirittura con il via libera di Matteo Renzi che era ancora – seppure per poco – un senatore del Pd.

La mossa ha ridato ossigeno a Conte, il cui livello di consenso nei sondaggi è risalito al 39 per cento. Di mezzo c’è stata la pandemia, che ha fatto da volano alla fiducia popolare nel presidente del Consiglio. Secondo un rilevamento Demos ha toccato la quota del 71 per cento, consacrandolo come una figura amata dal popolo.

Eppure la nascita del Conte bis non è stata l’ultima occasione per Di Maio di liberarsi dell’avvocato pugliese. Nell’estate scorsa si è consumato lo scontro con Beppe Grillo, che ha definito Conte «incapace» di guidare il Movimento.

Il ministro degli Esteri ha incontrato l’ex premier e, successivamente, con il presidente della Camera, Roberto Fico, è andato a cena dall’ex comico per provare a trovare una mediazione e ristabilire l’equilibrio nel Movimento. Alla fine Di Maio ha portato a casa il compromesso, salvando ancora una volta la carriera di Conte.

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