Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ex capo politico ma tuttora figura di riferimento, ha scritto una lettera al Foglio: «Mai più gogna, chiedo scusa», questo il titolo che ben rispecchia il contenuto. Abbiamo messo due opinioni a confronto.

Stefano Feltri

C’è sempre grande entusiasmo ogni volta che il Movimento Cinque stelle rinuncia a uno dei suoi temi fondanti: si parla di normalizzazione, incivilimento, di fine dell’ingenuità, che si tratti di scontrini, scissioni, poltrone o condanne. L’ultima svolta è quella del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ex capo politico ma tuttora figura di riferimento, che scrive una lettera al Foglio: «Mai più gogna, chiedo scusa», questo il titolo che ben rispecchia il contenuto.

Il caso è quello dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, di recente assolto in appello dall’accusa di turbativa d’asta. Di Maio si scusa per la campagna che i Cinque stelle avevano lanciato sulla vicenda all’epoca dell’arresto, nel 2016, quando la contrapposizione con il partito di Uggetti – il Pd di Matteo Renzi – era massima.

Di Maio nella sua lettera segue tutto il copione richiesto da quel peculiare filone del pensiero garantista italiano che si dedica in modo quasi esclusivo ai politici.

Il primo punto è prescindere rigorosamente dal merito, dire “aspettiamo le sentenze” nella fase delle indagini, commentare le sentenze di condanna in primo grado ricordando che c’è sempre l’appello e poi la cassazione, salutare quelle di assoluzione come le uniche che stabiliscono una verità incontrovertibile a conferma che tutto, fin dall’inizio, è stato soltanto una forma di accanimento o di interferenza della magistratura nella vita politica. Se poi, malauguratamente, c’è una condanna definitiva, allora bisogna ben guardarsi dal fatto che produca conseguenze sulla reputazione, per evitare l’accanimento (vedi i casi di Roberto Formigoni o Ottaviano Del Truco).

Se gli strepiti e i comizi del 2016 erano un po’ eccessivi, come ammette oggi Di Maio, altrettanto stonata è la lettera con la celebrazione della «forza, tenacia e dolore» con cui Uggetti è riuscito «a dimostrare la sua innocenza». A leggere Di Maio pare che pm vagamente eversivi abbiano scatenato una campagna contro il sindaco di Lodi, cavalcata in modo irresponsabile dai Cinque stelle, ma per fortuna la giustizia ha trionfato.

Come sempre, la realtà è un po’ più sfumata delle versioni caricaturali: una dipendente del comune di Lodi riteneva di che il bando per la gestione di certe piscine fosse stato manipolato per favorire il vincitore deciso dalla politica, si rifiuta di avallare la procedura, riceve varie pressioni, registra tutto e poi denuncia. Uggetti non solo di fatto ammetterà di aver manipolato il bando («l’ho fatto per il bene della città»), ma si mette anche in condizione di influenzare le indagini, contattando il comandante provinciale della Guardia di finanza.

In un’amministrazione pubblica trasparente e funzionante, come quella che i Cinque stelle hanno a lungo promesso senza provare a costruirla, la funzionaria di Lodi avrebbe avuto un binario per denunciare le presunte scorrettezze, anche se riguardavano il sindaco, senza trovarsi costretta ad andare in procura. E invece la dipendente comunale ha dovuto rivolgersi all’autorità giudiziaria.

Le cose hanno fatto il loro corso e la storia, evidentemente, non era così campata per aria visto che prima un giudice ha convalidato gli arresti, poi un altro ha condannato Uggetti e gli imprenditori in primo grado. Ma poiché prevale il grado più alto, la verità giudiziaria è che «il fatto non sussiste», cioè la turbativa degli appalti, come ha stabilito il giudice d’appello. Ma questo rende tutta la vicenda fondata sulla sabbia, prodotto di una persecuzione politica, o semplicemente priva di conseguenze penali?

E’ una ben strana idea di giustizia quella tanto diffusa in Italia in base alla quale soltanto una sentenza di condanna rende, a posteriori, un’azione giudiziaria legittima. La procedura penale stabilisce in realtà – e per fortuna – diversi livelli: un giudice stabilisce se ci sono i presupposti per le misure cautelari, un altro se ci sono quelli per un processo, un altro ancora per la condanna.

Il lato paradossale del garantismo al quale si è convertito Di Maio, è che rinnega la legittimità del giudizio politico, prevede che sia impossibile formarsi un’opinione degli eventi al di là del verdetto binario del tribunale, assolto/condannato, e quindi lascia in ultima analisi ai giudici la responsabilità di dare giudizi politici. Mentre a loro spetta soltanto il compito di decidere se certi comportamenti configurano reati e, in caso affermativo, quale sia la pena prevista dalla legge.

Questa posizione, che si manifesta rigorosamente soltanto dopo le sentenze di assoluzione e mai dopo quella di condanna, ha sempre fatto comodo a partiti di ogni colore politico.

Ora ne scoprono il fascino i Cinque stelle perché, come ammette lo stesso Di Maio nella lettera al Foglio, anche loro hanno un po’ di indagati e condannati tra le loro fila e dunque sono diventati più cauti.

Mattia Ferraresi

Le analisi sulle intenzioni, le motivazioni non dichiarate, gli opportunismi, le doppiezze e le prese di posizione strumentali dei politici che fanno giravolte sono sempre doverose e noiose.

Chi ha tempra e mestiere spiegherà la raffinata o suicida strategia politica sottesa alla tardiva resipiscenza di Luigi Di Maio, che in una lettera al Foglio si è scusato per le modalità «grottesche e disdicevoli» con cui lui e altri del Movimento 5 stelle (e non solo) cinque anni fa hanno attaccato (eufemismo) l’allora sindaco di Lodi, Simone Uggetti, arrestato per turbativa d’asta e poi assolto.

Chi invece brama di sapere se nell’intimo Di Maio si sia davvero pentito per «l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale», dovrà interpellare (o intercettare: a qualcuno piace così) il suo confessore, se ne ha uno, e dubito che ne caverà qualcosa.

Qui mi accontento di un’operazione molto più modesta e ingenua: leggere la lettera di Di Maio at face value, come dicono gli anglosassoni, cioè per il suo valore nominale, riga per riga, senza sforzarmi di cogliere quello che c’è in mezzo.

Lette così, le parole di Di Maio sono estremamente serie, utili, addirittura grandiose e rivoluzionarie se si pensa al contesto in cui sono maturate. Il ministro degli Esteri non si è scusato pubblicamente per un brutto incidente di percorso: si è scusato per un errore che è il diretto discendente della ragione sociale del M5s, il perno della sua esistenza. E molte altre forze politiche sono corresponsabili nell’aver recitato la parte della tricoteuse, se non direttamente del boia.

«L’imbarbarimento del dibattito associato ai temi giudiziari» di cui Di Maio oggi si pente è da molto tempo rappresentato come virtù suprema, garanzia di onestà, specchio di giustizia.

Dopo l’arresto del sindaco del Pd un situazionista Danilo Toninelli, direttamente dal palazzo di giustizia di Lodi, diceva che Uggetti «ha confessato» un fatto che non sussiste, Roberto Fico lamentava che il sindaco «continua a gestire il comune» dal carcere, Stefano Buffagni spiegava che «gli arrestati del Pd non fanno più notizia», il gruppo del M5s alla Camera scriveva con soddisfazione che «l’arrestato del giorno è Simone Uggetti», premurandosi poi di notare che «il #M5S aveva già denunciato i fatti per cui oggi è stato arrestato il sindaco di #Lodi» (giustizia predittiva, evidentemente), Nicola Morra si domandava «chi sarà il prossimo?», Laura Castelli rivendicava il grande lavoro del Movimento per propiziare l’arresto: «Il #m5s fa un esposto e il sindaco di #Lodi, grazie al lavoro degli inquirenti, viene arrestato. Inutili sti grillini...», uno sdegnato Alessandro Di Battista twittava: «Il garantismo del Pd? Garantire sempre la poltrona anche agli arrestati» e Beppe Grillo sentenziava che «il Pd affonda nella piscina di Lodi». Per pubblicare l’elenco integrale servirebbero dei server di rinforzo.

Un giurista normodotato di una università liberal americana a scelta potrebbe sostenere che questa roba è assimilabile all’hate speech, somiglia, per analogia, alla violenza fisica e come tale dovrebbe portare con sé conseguenze legali per chi la pratica. Ma per i lettori “alla lettera” della lettera di Di Maio (scusate il bisticcio) non importa, perché la questione che solleva è pregiuridica e prepolitica.

Le esternazioni ignobili che la classe politica si sente in diritto di produrre all’apparire delle prime carte dell’accusa ledono la qualità del dibattito civile anche a prescindere dall’accertamento delle responsabilità penali. È una questione di decenza umana e decoro pubblico, un fatto di estetica prima ancora che di etica o di codice penale.

Per spingere l’argomento ancora un passo più in là: l’imbarbarimento che oggi Di Maio ammette sarebbe esecrabile anche se Uggetti fosse stato condannato per i reati di cui era accusato. Poi è stato assolto, fatto centrale della vicenda, ma è il comportamento della classe dirigente, media inclusi, verso indagati e imputati che dà la misura reale della barbarie. Il principio di giustizia retributiva su cui si poggia chi oggi vorrebbe la gogna per quelli che la invocavano, sbagliando, ieri, offre solo una soddisfazione effimera.

Di Maio ha fatto tutto questo per rifarsi una verginità in vista delle sue nuove ambizioni politiche? Lo ha fatto perché con il passare del tempo anche i suoi amici sono finiti nel tritacarne giudiziario? Credo che a Roma in questi casi dicano “sticazzi”. Un atto giusto non cessa di essere giusto perché viene compiuto per le ragioni sbagliate.

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