Nel suo ufficio, al secondo piano della sede nazionale del Pd, Enrico Letta ascolta la conferenza stampa di Mario Draghi. Solo e concentrato. Alla fine quello che sente gli piace, anche più di quello che si può ufficialmente dire. La disponibilità del presidente del Consiglio a farsi eleggere al Colle è quello in cui sperava. La precondizione per far digerire questa ipotesi ai gruppi parlamentari, e non sottoporla al rischio dei franchi tiratori, era una chiara rassicurazione sulla «stabilità» fino al 2023. Ed è arrivata.

Nessun commento pubblico

Ora però il leader Pd sa che non deve sbagliare. Per questo Letta non commenta pubblicamente, come del resto gli altri leader. Ai suoi spiega che «il Pd è sempre stato convinto che Draghi sia insostituibile. Colle e palazzo Chigi sono due questioni legate, se i partiti non chiariscono cosa succede dopo la sua eventuale elezione al Quirinale la strada si farebbe in salita. Serve una discussione seria e ordinata, in cui il contesto, cioè la pandemia, resta sempre la questione fondamentale da valutare».

Draghi al Quirinale per sette anni e il ritorno graduale al confronto sinistra-destra sono meglio, secondo il leader del Pd, di un Draghi indebolito, messo a rischio dai disordini parlamentari di un anno pre elettorale. Al Nazareno il voto anticipato non viene considerato la fine del mondo. Ma è chiaro che fra i dem altri la pensano diversamente, in primo luogo il ministro Dario Franceschini che manda avanti i suoi a chiedere che il premier resti dove sta.

Il disegno

Letta proverà a mettersi a disposizione di questo disegno, che ha anche il vantaggio di non essere ascrivibile a chi spera di fargli lo sgambetto, leggasi Matteo Renzi. In due modi: provando come ha fatto ieri a rafforzare il patto di cooperazione con gli alleati giallorossi (il ministro Luigi Di Maio sembra tirare in senso opposto). E soprattutto stringendo i bulloni fra partito e parlamentari. Per questo il 13 gennaio ha convocato una riunione congiunta fra la direzione del partito e i gruppi di Montecitorio e palazzo Madama. Parola d’ordine: chiarezza. Imperativo: scongiurare il remake del film dei 101 che hanno affossato Romano Prodi.

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