Da giorni l’azione di partiti, governo, boiardi delle partecipate e dirigenti della pubblica amministrazione viaggia a scartamento ridotto. L’intera macchina dello stato – al netto dell’emergenza Covid – sembra congelata, comprese le scelte sui fondi europei di Next Generation Eu. Tutto appare cristallizzato, in attesa del finale della partita che inizierà il 24 gennaio alle 15, con la prima “chiama” a Montecitorio: i grandi elettori si riuniranno in seduta comune per eleggere il nuovo presidente della Repubblica.

La battaglia per il Colle ha da sempre un peso specifico decisivo, ma stavolta lo snodo è ancor più cruciale. Perché anomalo è il contesto in cui si svolge, con una pandemia che è nel pieno di una nuova ondata, un esecutivo che sembra meno solido e un paese che – dovesse dare prova di instabilità – potrebbe essere colpito dalla speculazione finanziaria.

Il primato della politica

Nella prima puntata dell’inchiesta di Domani, pubblicata lunedì scorso, si è inteso segnalare come le forze che spingono Draghi a traslocare a fine mese sul Colle sono trasversali e consistenti (dal forzista Gianni Letta alla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, da Luigi Di Maio al ministro Lorenzo Guerini, da alcune cancellerie americane ed europee ai vertici delle forze dell’ordine fino a quelli del Vaticano), tanto che i sostenitori più fiduciosi danno al banchiere centrale ottime chance di realizzare la sua ambizione. «Ad oggi il professore ha il 51 per cento di farcela, percentuale in crescita», ripeteva anche ieri un consigliere dello staff di Palazzo Chigi.

Se il movimento draghiano punta sull’ineluttabilità dei fatti, sono molti i leader e i gruppi di potere che si muovono affinché il presidente diverso. E che sperano che Draghi resti a Palazzo Chigi almeno fino alle prossime elezioni.

Una parte non marginale di senatori e deputati teorizzano la democratica supremazia della politica rappresentativa sui tecnocrati, e spera che una sonora bocciatura della candidatura del banchiere faccia saltare anche la sua poltrona di Palazzo Chigi, dove il decisionismo del premier è sempre meno tollerato.

Uno tsunami non inverosimile: Draghi ha fatto intendere attraverso i suoi sherpa che il suo obiettivo è andare al Quirinale subito, e che nel caso i partiti gli preferissero altri papabili (escluso un bis di Mattarella, che non inficerebbe le ambizioni del professore in un futuro non troppo lontano), lui non sarebbe disposto a rimanere a Palazzo Chigi a fare da balia per pochi mesi a una maggioranza che si sta sfibrando.

Le motivazioni del variegato partito anti-Draghi sono difformi. Alcuni membri del clan ipotizzano strategie alternative che a parer loro garantirebbero meglio le massime istituzioni nazionali.

Altri leader ostili al banchiere sembrano invece essere stimolati soprattutto da interessi di parte, e dai difficili equilibri tra le mille correnti in cui sono divisi gli schieramenti.

Chi ha paura di Draghi al Quirinale teme anche di perdere vecchie prebende, scranni parlamentari e rendite di posizione che potrebbero – in caso di salita al Colle – scomparire in un amen.

I giochi di D’Alema

Prendiamo Massimo D’Alema, esponente di punta (anche se da tempo è fuori dal Parlamento) della “Ditta” che è riuscita a incoronare per due volte Giorgio Napolitano, e che oggi ha ottimi rapporti anche con l’entourage di Mattarella. L’ascesa di Draghi alla presidenza della Repubblica è vista dal lider Maximo come una iattura.

La brutalità con cui si è scagliato contro «l’operazione Draghi», definita senza mezzi termini «una sospensione della democrazia», di fatto un’abdicazione della politica «al potere della grande finanza internazionale», ha sorpreso anche i fedelissimi Pierluigi Bersani e il ministro della Salute Roberto Speranza.

Ma non si tratta di parole dal sen fuggite, né come hanno suggerito alcuni commentatori di reazioni scomposte frutto di un carattere pugnace. Ottimi rapporti con la Cina, meno atlantista di Draghi, il presidente dell’advisory board di Ernst &Young sa che con la squadra di Draghi sul Colle il suo campo d’azione e le sue coperture politiche si ridurrebbe di molto rispetto alle ultime due decadi.

Non è un caso che in questi giorni D'Alema si stia impegnando per spingere un candidato alternativo. A parte un bis di Mattarella, che non guasterebbe alla sinistra di Leu, il suo pretendente preferito è il giudice della corte costituzionale Giuliano Amato, ex premier e amico che lui stesso volle a capo dell’international board della sua Fondazione ItalianiEuropei. Le malelingue raccontano che per convincere i grandi elettori i due ex premier congetturano ai referenti dentro e fuori le camere che Amato (che a 84 anni sarebbe il presidente eletto più anziano di sempre, escludendo la rielezione di Napolitano) sarebbe disposto addirittura ad accettare un patto politico che preveda una scadenza anticipata del suo mandato.

Il “dottor Sottile”, come soprannominò Eugenio Scalfari l’ex premier socialista, ha un piano di combattimento diverso da quello di Draghi, che spera di essere votato da una grande maggioranza, possibilmente la stessa che sostiene l'attuale governo. «Amato, a differenza di altri come Pierferdinando Casini o Silvio Berlusconi, non crede di riuscire a essere votato compattamente da uno dei due schieramenti per poi sfondare tra i deputati del centro in modo da raggiungere il quorum dalla quarta votazione. Lui spera di farcela raccogliendo, alla maniera andreottiana, consensi trasversali in tutti i partiti, da Leu a pezzi di Forza Itala, dal Pd ai contiani del M5S», dice una fonte che segue da vicino le mosse dell’ex braccio destro di Bettino Craxi.

Il “second best” di D’Alema è Paola Severino, avvocato ed ex ministro della Giustizia nel governo Monti che ha relazioni bipartisan ed è nel ristrettissimo giro di donne considerate candidabili. Il terzo nome dell'ex premier (che cerca di tenere coperto) è infine quello di Luciano Violante, già attivo nel Pci, ex magistrat e presidente della Camera, diventato oggi iper-garantista: secondo la “Ditta” farebbe breccia anche su un largo pezzo del centrodestra.

D’Alema a questo giro sa che controlla pochi pedoni sulla scacchiera e che ha margini stretti per architettare le sue mosse, ma sa pure il quadro politico è fluido e frammentato, e chi lo conosce sa che proverà ad incidere fino alla fine. Le sue sponde sono le solite: l’immarcescibile Goffredo Bettini, che si svaga su tre-quattro tavoli diversi per provare a vincere comunque vada a finire, e soprattutto il sodale Giuseppe Conte, che come D’Alema considera Draghi una sorta di usurpatore del governo giallo-rosso da lui guidato, e che è pronto a fare di tutto per evitare la promozione dell’ex Goldman Sachs al Quirinale.

Conte contro l’usurpatore

L’ex premier e capo politico dei Cinque stelle, Giuseppe Conte, in teoria è il leader che controlla il maggior numero di grandi elettori, e sarebbe per lui una sconfitta secca non riuscire a intestarsi, almeno in parte, il nuovo inquilino del Colle. Vero che l’esercito di Conte è indebolito dal fatto che Luigi Di Maio e Beppe Grillo, entrambi di tendenza draghiana, hanno presa forte su una cinquantina di parlamentari. Ed è altresì un fatto che la confusione mostrata in merito alla faccenda (Conte ha cambiato strategia quattro volte in due mesi) lo ha indebolito persino nel gruppo al Senato, da sempre suo bastione. Questa settimana i grillini di Palazzo Madama hanno addirittura proposto un Mattarella bis, nonostante pochi giorni prima Conte avesse evocato un «presidente donna», pensando a un nome che Conte è intenzionato a concordare con il centrodestra (quello di Letizia Moratti non è affatto ipotesi peregrina).

La leadership dell’ex avvocato del popolo si sta sciogliendo come un ghiacciolo al sole. Conte sa però che – se riuscisse a rimanere capo politico del M5s fino alla vigilia delle prossime elezioni politiche – sarà lui a compilare le liste elettorali del movimento. Diventerebbe così il vero referente a cui i parlamentari grillini dovranno rivolgersi per mendicare uno scranno per la legislatura che verrà: per questo sottostimare del tutto il peso di Conte nella contesa quirinalizia potrebbe essere ingeneroso. L’arma finale anti-Draghi comunque è già stata ventilata: l’ex socio di Guido Alpa e Luca Di Donna ha detto che vuole affidarsi per la scelta alla votazione online degli attivisti, che difficilmente premierebbero Draghi, visto che ha scalzato Conte da palazzo Chigi. A meno che nella votazione non intervenga direttamente Beppe Grillo a sostegno del premier in carica.

Poteri forti

Anche altri protagonisti hanno dubbi sul trasloco dell'uomo che salvò l'euro con il “whatever it takes” da palazzo Chigi al Quirinale. Partiamo dai poteri economici. Pezzi di Confindustria (non il presidente Carlo Bonomi, che è passato alla fazione che vuole il premier al Colle subito), grandi gruppi editoriali come Gedi controllato da John Elkann, gli ambienti della finanza internazionale che parlano tramite il Financial Times e l’Economist, suggeriscono da mesi che Draghi debba restare al timone dell’esecutivo: è l’unico che ha capacità e standing per tenere insieme una maggioranza che ha più teste di Cerbero, ed è il solo che può mettere a terra il Pnrr essendo garante dei soldi che ci ha prestato la Ue. Con un suo trasloco al Quirinale, invece, il governo rischia di perire all'istante, con ripercussioni sulla solidità percepita dei conti pubblici italiani, visto che il debito pubblico ormai ha superato il 150 per cento del Pil.

Ragionamenti che a Palazzo Chigi il premier e i suoi principali consiglieri, come il sottosegretario Roberto Garofoli e il capo di gabinetto Antonio Funiciello, i due fedelissimi che tengono i canali con partiti e portatori di interessi, non condividono appieno. Secondo il “partito di Draghi” infatti la tenuta dell’esecutivo - in un anno che sarà altamente conflittuale per via delle elezioni politiche comunque previste a fine legislatura - trascende la presenza di SuperMario, che potrebbe meglio servire il paese dall'alto del nuovo incarico. «La domanda da farsi è simile a quelle che Massimo Catalano faceva a Renzo Arbore nel programma Quelli della notte» sintetizzano dallo staff del sottosegretario Bruno Tabacci, vicinissimo a Draghi. «Per il paese è meglio avere Draghi al Colle per sette anni a garantire la Costituzione, dell’unità nazionale e i mercati internazionali che hanno fiducia illimitata in lui, o lasciarlo premier per pochi mesi e rischiare di perderlo per sempre dopo le elezioni?».

Le paure dei democratici

I draghiani hanno i loro tornaconti, e anche loro appaiono caustici. Nel Pd, il partito che in tutta la seconda Repubblica è sempre stato determinante per eleggere il capo dello Stato, le idee sul “che fare” sono invece più affastellate, e soprattutto cangianti a secondo dei giorni. Pezzi da novanta come Guerini, ministro della Difesa e leader della grande corrente di Base riformista, sono certi che la promozione dell'economista sia la più conveniente anche per il partito, il segretario Enrico Letta non ha ancora dato pubblicamente una linea chiara.

Di una cosa però Letta è certo: stavolta il partito non potrà imporre al Quirinale un suo candidato come avvenuto nell’ultimo ventennio. Nomi spendibili non mancano neanche stavolta, come Paolo Gentiloni, Anna Finocchiaro o Dario Franceschini, ma il Pd a causa del rovescio elettorale del 2018 e della scissione renziana a questo giro controlla un pacchetto risibile di grandi elettori: solo 133 su 1007. Appena il 13 per cento del totale.

Le probabilità che i democratici riescano ad eleggere dopo Napolitano e Mattarella un altro piddino sono praticamente nulle.

Letta ne è consapevole. Perché allora tergiversa e non si è ancora intestato una personalità di alto profilo come Draghi, come fece Walter Veltroni con Carlo Azeglio Ciampi nel 1999?

«Enrico ha già assicurato a Palazzo Chigi che il suo candidato è Draghi. Ma non può affermarlo pubblicamente perché teme che i gruppi Pd di Camera e Senato, che non controlla appieno, temano che lui poi voglia andare ad elezioni anticipate, per spazzare via i parlamentari eletti con le liste fatte da Renzi cinque anni fa e promuovere i fedelissimi», racconta una fonte che lavora negli uffici di Debora Serracchiani, vicepresidente del Pd.

«Giuseppe Conte, che Letta considera ancora un alleato imprescindibile, è maldisposto alla candidatura di Draghi».

È vero che l’asse tra Letta e Conte si è un po’ incrinato dopo la figuraccia collettiva provocata dal “niet” dell’avvocato del popolo alla candidatura alle suppletive del collegio di Roma 1 («Conte aveva detto sì prima dell’annuncio di Enrico, poi ha avuto paura di perdere e se l’è rimangiato», spiegano ancora attoniti dall’entourage della Serracchiani). Però senza i grillini il Pd sa che alle politiche la sconfitta è garantita.

La versione di Dario

Rispetto a Letta, gli altri capicorrente del Pd come Franceschini, Andrea Orlando o Matteo Orfini hanno posizioni più sfavorevoli rispetto a Draghi. Il capo della corrente dei Giovani Turchi, come il suo vecchio mentore D’Alema, è cultore della preminenza della politica sui tecnocrati, e ha proposto come alternativa la rielezione di Mattarella, senza se e senza ma.

Franceschini, stratega e maggiorente del partito, per ora non ha rilasciato dichiarazioni pubbliche. Ma la contrarietà del ministro della Cultura ad affidare oggi la presidenza all’ex presidente della Bce è ben nota.

In molti credono che il diniego sia legato a gelosie o un interesse personale («qualsiasi ragionamento politico faccio sulla questione, tutti pensano che io abbia un secondo fine, cioè quello di diventare io stesso presidente della Repubblica, meglio dunque stia zitto», scherza Franceschini con gli amici). Si senta davvero in partita o meno, Franceschini argomenta i suoi dubbi proponendo anche motivazioni politiche. Se Draghi lascia il governo per il Quirinale, questa la tesi, il ministro è sicuro che la Lega si sfilerebbe, passando all’opposizione per recuperare consensi a destra e riprendersi il vantaggio sulla Meloni.

Una maggioranza tipo “Ursula” (con un nuovo governo appoggiato dal centrosinistra più Forza Italia) sarebbe bombardata H24 dai sovranisti nei mesi pre-elettorali, e senza lo scudo di Draghi rischierebbe di arrivare sfinita alle elezioni politiche.

«Il Pd - che con Draghi a Palazzo Chigi è il primo partito nei sondaggi - perderebbe malamente e il paese finirebbe dal 2023 in mano alle destre», concordano dall’entourage di Orlando.

Insomma, se tutti nel Pd credono che Draghi sarebbe un eccellente presidente, gli interessi politici confliggono con gli interessi di partito. Alla fine sarà Letta a dare la linea, ma i franchi tiratori che potrebbero impallinare l’opzione potrebbero essere in numero soverchiante, anche tra le fila di quello che è ormai il partito dell’establishment. Dove in molti non credono affatto allo spauracchio che il banchiere, perdesse la battaglia per il Colle, vada davvero via portandosi il pallone.

«A Natale ha detto che è un nonno al servizio delle istituzioni» suggeriscono dalle correnti del Pd che tifano il Mattarella Bis o una soluzione di compromesso “alla Amato”. «Un civil servant di profilo così autorevole non abbandonerebbe mai la plancia di comando in un momento così delicato».

 

© Riproduzione riservata