«Sarà il parlamento a decidere la vita del governo», il parlamento «l’ha decisa quest’anno e la deciderà sempre», se c’è un altro come lui, e cioè che garantisce la difficile navigazione del Pnrr nel prossimo anno «chiedetelo al parlamento», «siamo una democrazia parlamentare», sul presidente della Repubblica «la decisione è interamente nelle forze politiche».

Il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva anticipato la conferenza di fine anno a prima di Natale, anzi a prima dell’approvazione della manovra da parte delle camere – quest’anno un ritardo da record, con il tanto rispettato parlamento costretto a un’analisi sommaria – con l’intenzione di evitare di rispondere solo a domande sulla sua eventuale elezione al Colle. O non gli è riuscita o voleva fare quello che ha fatto, e cioè lanciare un segnale alle forze politiche sul futuro Colle.

All’austero Auditorium Antonianum di Roma è il tema praticamente unico: nella storia della Repubblica non c’è mai stato un passaggio diretto da palazzo Chigi al Quirinale, che peraltro pone grattacapi ai costituzionalisti (per esempio: sarà l’ex premier diventato presidente a fare le consultazioni per il premier che lo sostituisce?). Comunque Draghi, in ogni passaggio, ribadisce il suo rispetto per il parlamento. Purché, sia chiaro, faccia quello che dice lui.

Ricapitolando: Draghi presenta un bilancio del suo anno a Chigi. Sul Pnrr, dice, «abbiamo raggiunto tutti i 51 obiettivi» concordati con la Commissione europea, è importante restare in «allerta» ma «non c’è ragione di temere che non si possa fare bene anche in futuro» perché sono state create le condizioni affinché «il lavoro sul Pnrr continui, indipendentemente da chi ci sarà».

A una condizione, però: «È da temere se la maggioranza si spacca sul capo dello stato. È immaginabile una maggioranza che si spacchi sul presidente della Repubblica e si ricompone sul governo?» Domanda retorica. La condizione perché tutto prosegua è che la maggioranza dal Pd alla Lega lo elegga e poi resti compatta intorno a chi ne farà le veci a palazzo Chigi. Tanto ci sarà lui al Quirinale a garantire la retta via del rilancio del paese.

La torsione semipresidenziale di fatto è dietro l’angolo. Con buona pace del rispetto del parlamento, le camere dovrebbero accettare un altro tecnico, anche se più sbiadito. Il premier lascia intendere che se invece le forze politiche dovessero trovare un’altra formula sul Quirinale – per esempio la maggioranza “Ursula” che guida la Commissione europea, senza la Lega – il governo salterebbe.

Draghi lo dice con eleganza, ipnotizza i cronisti con la sua ironia, sfotticchiando quelli che fanno le domande in inglese («tradurrò per te», rassicura). «Non ho particolari aspirazioni di un tipo o dell’altro, sono un uomo, sono un nonno, al servizio delle istituzioni, i miei destini personali non contano», dice. Bella frase, se non fosse che l’Italia ha conosciuto i propositi di «nonno Romano» Prodi e di «nonno Mario» Monti, e nessuno di loro aveva affatto voglia di andare in pensione. Per non parlare di Silvio Berlusconi, che è appena diventato bisnonno ma conserva mire quirinalizie.

Partiti freddi

AP

I partiti reagiscono con grande cautela, le «fonti» di M5s, Lega, Forza Italia e Pd applaudono. Ma tutti soprattutto alla parola «continuità». Che però nel dizionario delle parole fraintese significa un’altra cosa: significa Draghi resti a palazzo Chigi. Il più possibilista verso la sua presidenza della Repubblica è Enrico Letta, ed è significativo che sia anche il meno ostile alle elezioni anticipate. Il suo alleato Giuseppe Conte non ne vuole sentire parlare: sarebbe ancora furibondo per essere stato maltrattato sulle nomine Rai.

Con garbo, il premier ha lanciato una sfida ai partiti. E i partiti devono decidere se possono rischiare, seguendo il metodo proposto dallo stesso Draghi, di trovare una larghissima intesa su un altro nome (ieri salivano le quotazioni di Giuliano Amato) e lasciare lui dov’è, proprio in nome della «continuità» della mano che deve guidare la road map del Pnrr. O se arrendersi all’azzeramento della politica, non per uno ma per i prossimi sette anni.

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