Il 13 giugno scorso è cominciato il negoziato a tre (trilogo) fra i rappresentanti del Parlamento europeo, del Consiglio dell’Unione europea e della Commissione europea circa il regolamento sulla gestione dell’asilo e dell’immigrazione, che riforma – ma non supera – il regolamento di Dublino. L’8 giugno, i ministri degli Interni dell'Unione europea, riuniti in Lussemburgo al Consiglio Affari interni, avevano trovato un accordo sulla posizione da tenere nei negoziati con il Parlamento Ue sul regolamento citato, nonché su quello relativo alle procedure d’asilo (il cui trilogo era stato avviato ad aprile sui principi generali), nell’ambito del Patto sulla migrazione e l’asilo.

A conclusione dei triloghi, i due atti dovranno nuovamente essere approvati sia dal Consiglio dell’Ue che dal Parlamento europeo. Il negoziato sarà lungo e complesso: il testo adottato dal Consiglio è diverso sia dalla proposta iniziale della Commissione, del settembre 2020, sia dalla posizione del Parlamento europeo, dell’aprile scorso.

A che punto è il nuovo patto

Prima di valutare alcune criticità dell’accordo, può essere utile verificare a che punto è il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo, nell’ambito del quale si inseriscono i regolamenti citati. Il Patto - presentato dalla Commissione europea nel settembre del 2020, a seguito dello stallo del negoziato per modificare il regolamento di Dublino – si compone di un pacchetto di proposte normative e di altre iniziative in materia di politica dell’immigrazione.

Nel maggio 2021 è stata adottata la direttiva Blue Card, per incentivare l’arrivo di lavoratori qualificati, semplificando le procedure di ingresso e offrendo condizioni più favorevoli di soggiorno per i titolari del permesso “Carta blu Ue”. Nel gennaio 2022, l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (Easo) è stato trasformato in un’agenzia indipendente, l’Agenzia europea per l’asilo (Euaa).

Ad aprile 2023 è stato approvato il mandato negoziale del Parlamento Ue relativo alla direttiva modificata sulla procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico di soggiorno, alla direttiva modificata sui soggiorni di lungo termine, al regolamento modificato sulla procedura comune d'asilo, al regolamento per la gestione dell’asilo e della migrazione, al regolamento per le crisi e le cause di forza maggiore.

Sul regolamento relativo alla procedura comune d'asilo nonché su quello per la gestione dell’asilo e della migrazione, l’8 giugno scorso è stato raggiunto l’accordo anche nel Consiglio, come detto. Nessuno dei due co-legislatori – Parlamento e Consiglio dell’Ue – ha invece definito la propria posizione circa il regolamento sulla strumentalizzazione nel campo della migrazione e dell’asilo.

Sono in fase di trilogo il regolamento Eurodac, la banca dati delle impronte digitali, il regolamento sullo screening, cioè identificazione, controlli di sicurezza, nonché il regolamento sulla procedura comune d'asilo. È stato raggiunto l’accordo politico circa la direttiva sulle condizioni di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, il regolamento sul nuovo quadro di reinsediamento e il regolamento sulle qualifiche. Non è ancora in discussione, invece, la direttiva sui rimpatri.

L’accordo dell’8 giugno

Siccome ci sono opinioni controverse circa i “successi” ottenuti dall’Italia nell’accordo dell’8 giugno, può essere utile qualche chiarimento. Perché, al di là di ciò che vanta l’esecutivo di Giorgia Meloni, la situazione per i paesi di primo ingresso, tra cui l’Italia, non cambia molto, anzi.

Resta fermo il principio previsto dal regolamento di Dublino: sul paese di primo ingresso continua a gravare il peso dell’accoglienza dei migranti e la valutazione delle loro domande d'asilo. È vero che è stata prevista una soglia minima di migranti da ridistribuire ogni anno pari a 30 mila presenze - numero che potrà essere rivisto in base ai flussi – e che la Commissione assegnerà una quota di migranti a carico di ciascun paese, sulla base del Pil e della popolazione.

Ma se un paese non vorrà procedere all’accoglienza potrà pagare una sorta di compensazione finanziaria, pari a 20 mila euro per ogni migrante non accettato. Dunque, l’accordo raggiunto non sancisce un meccanismo cogente per i ricollocamenti: c’è una “solidarietà obbligatoria”, ma al contempo flessibile.

Inoltre, si raddoppia il periodo di responsabilità del paese di primo ingresso, esteso a due anni, contro i 12 mesi stabiliti dalle regole di Dublino. I due anni diventeranno 15 mesi per i migranti ai quali è stata respinta la domanda d'asilo e 12 mesi per quelli sbarcati con operazioni di ricerca e salvataggio.

Gli accordi prevedono una procedura veloce e sommaria per valutare rapidamente, alle frontiere esterne dell'Ue, le domande di asilo e procedere con sollecitudine ai rimpatri, analogamente a quanto accade nei centri chiusi realizzati nelle isole greche dal 2016.

I paesi di primo ingresso dovranno registrare entro 24 ore i migranti irregolari; avranno poi 12 settimane per l’eventuale concessione dell’asilo e altre 12 per i rimpatri, qualora la domanda d’asilo non abbia esito positivo. Sei mesi in tutto, difficili da rispettare per i paesi di arrivo, oltremodo gravati.

I rimpatri

La procedura sommaria di frontiera è obbligatoria in una serie di casi: tra gli altri, se il richiedente ha una nazionalità con un tasso di riconoscimento inferiore al 20 per cento, cioè se meno del 20 per cento delle domande di asilo da parte di chi proviene da tale Stato sono accolte.

L’automatismo connesso alla provenienza da un paese reputato “sicuro”, che sembra preludere al diniego dell’asilo, può rendere per il migrante più difficile dimostrare di avere comunque diritto a protezione, nonché il ricorso contro il diniego, anche se ciò dovrebbe sempre essergli garantito.

L’accordo prevede che, qualora la domanda d’asilo sia stata rigettata, il migrante possa essere rimpatriato non nel paese d’appartenenza, ma in quello di transito, purché sia un paese sicuro (definito nella direttiva procedure, 2013/32/Ue) e si dimostri l’esistenza di connessioni, di legami - familiari, sociali, di lavoro ecc. - tra il migrante e lo Stato verso cui si vuole rimandare. Il governo italiano aveva proposto di considerare rilevante il solo transito in un certo paese, senza necessità di connessioni. Il fatto che queste ultime alla fine siano state previste non è di certo una vittoria l’Italia.

Quindi, per far tornare nel paese di transito il migrante che non abbia diritto all’asilo servirà dimostrare che tale paese sia sicuro, rinvenire la prova dei legami del migrante con tale paese e soprattutto avere con quest’ultimo accordi di rimpatrio. Ma i rimpatri sono una pratica difficile e costosa, come attestato dalla Corte dei Conti in un rapporto del maggio 2022 sul «rimpatrio volontario e assistito nella gestione dei flussi migratori»: tra il 2018 e il 2021, su oltre 136 mila migranti sbarcati, sono stati effettuati 19.745 rimpatri forzati e 2.183 rimpatri assistiti, rispettivamente il 14,5 per cento e l’1,6 per cento del totale degli arrivi.

Le cifre spese dall’Italia per le operazioni di rimpatrio forzato si attestano mediamente intorno ai 9 milioni di euro annui (8,3 milioni di euro nel 2020, 8,9 milioni nel 2019 e 10,1 milioni nel 2018).

Dunque, i rimpatri veloci che dovrebbero seguire alla procedura di frontiera rischiano di non essere realizzati. Peraltro, come rilevato dal professor Fulvio Vassallo Paleologo circa i rimpatri verso paesi di transito, finora nessun accordo stipulato dall’Italia ha previsto la riammissione di chi non fosse cittadino dello Stato in cui rientrare; inoltre, per potervi procedere servirebbe modificare alcune normative, come ad esempio la direttiva europea sui rimpatri (2008/115/CE). Impresa ardua, considerata la scadenza della legislatura.

Qualcuno ha definito storico l’accordo raggiunto nel Consiglio. È storico il fatto che un accordo sia stato raggiunto. Ma sul fatto che il suo contenuto rappresenti una svolta storica sull’immigrazione può nutrirsi qualche dubbio.

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