Le elezioni primarie sono un metodo di selezione dei candidati in cui la decisione è affidata agli iscritti dei partiti oppure a tutti i cittadini che si riconoscono in una certa area politica. Nel primo caso si parla di primarie chiuse, nel secondo di primarie aperte.

Nel nostro paese sono state usate in forma aperta due volte per selezionare il candidato alla presidenza del Consiglio (Romano Prodi e Pier Luigi Bersani); nel 2013, da parte di Sel, Svp e del Pd, per i candidati al parlamento; e in 18 occasioni, sempre a opera del centrosinistra, per individuare gli aspiranti presidenti di regione.

Lo stesso termine, per estensione, viene adottato per i casi in cui iscritti o simpatizzanti vengano chiamati a eleggere direttamente i leader di partito, come previsto nello statuto Pd. Circa il 90 per cento delle 1.136 primarie per la scelta dei candidati a sindaco fin qui organizzate sono state promosse dal centrosinistra.

Ma, soprattutto in anni recenti, le hanno utilizzate anche i partiti del centrodestra: in forma chiusa per portare Matteo Salvini alla guida della Lega, in forma aperta per selezionare alcuni candidati a sindaco. Il M5s fa ricorso a primarie chiuse (e online) per tutte le competizioni in cui si impegna, definendole con nomi pittoreschi come “comunarie” o “parlamentarie”.

L’inversione della curva

Enrico Letta ha affermato recentemente che «le primarie sono nel dna del Partito democratico», che sono un suo tratto identitario. Tuttavia, vari osservatori ritengono che le primarie siano ormai usate solo strumentalmente e in casi eccezionali.

Grazie ai dati raccolti nell’ambito del progetto Candidate and Leader Selection possiamo qui fornire misure precise. Come si vede dalla figura sotto, il ricorso alle primarie è cresciuto in maniera abbastanza lineare dal 2005 al 2014, poi è crollato. Nel 2014 si sono tenute nell’80 per cento dei capoluoghi di provincia chiamati al voto (in 23 comuni su 28, in 22 del centrosinistra), nel 2019 la percentuale si riduce al 3 per cento (4 su 30, 3 del centrodestra e solo 1 del centrosinistra)!

Nei comuni non capoluogo, hanno riguardato in media meno del 10 per cento di quelli chiamati al voto ma la tendenza è simile. La seconda figura mostra che in alcuni anni (2009, 2018) sono state preferite le primarie di partito rispetto a quelle di coalizione. Non a caso, quando il Pd ha assunto una incerta o eclettica strategia delle alleanze.

Fuori dalla retorica di circostanza dei leader, cosa spiega la netta inversione della curva? A nostro avviso, fondamentalmente due fattori. Uno riguarda la “domanda di primarie” da parte di potenziali candidati.

L’altro le posizioni prevalenti dentro il Pd. L’ascesa delle primarie coincide, da un lato, con il crescente protagonismo politico dei sindaci, dall’altro con l’affermazione del “Pd a vocazione maggioritaria”, cioè del partito nato dall’Ulivo con la credibile ambizione di rappresentare un ampio e solido baricentro riformista dell’area di centrosinistra, anche attraverso il coinvolgimento diretto di cittadini non iscritti a nessun partito nella scelta dei leader nazionali e dei candidati alle principali cariche istituzionali. Le due tendenze raggiungono l’apice con il successo del Pd guidato da Matteo Renzi nel 2014 per poi crollare insieme al fallimento di quella stagione.

Le origini del problema

Il protagonismo politico dei sindaci si era affermato in virtù dell’elezione diretta e di adeguati riconoscimenti (materiali e simbolici) per il loro ruolo. Si è poi affievolito a causa della compressione dei bilanci comunali, per la riduzione delle indennità e delle risorse per gli staff, per il maggiore rilievo politico assunto dai presidenti di regione, per l’aumento esponenziale del “rischio giudiziario”.

Cosicché, ci sono meno outsider pronti a sfidare i candidati frutto di accordi fatti a tavolino dentro o tra i partiti. Allo stesso tempo, quando i partiti identificano candidature ritenute autorevoli e/o indipendenti, preferiscono tenerle al riparo dal rischio di un insuccesso nelle primarie.

La “domanda” si è ridotta anche per il venir meno di una forza politica di sinistra capace di stimolare e sfidare il Pd. La domanda veniva infatti anche da componenti, come Prc e Sel, che nelle primarie vedevano una concreta chance per propri candidati particolarmente popolari e per certificare al tempo stesso la propria adesione non subalterna al centrosinistra, come mostra la figura 3.

Si pensi ad esempio a Massimo Zedda a Cagliari o Giuliano Pisapia a Milano (2011). Tutti casi, peraltro, nei quali la teoria dalemiana ora fatta propria all’unisono dalla dirigenza Pd per cui nelle primarie di coalizione si devono sostenere, a prescindere, i candidati appartenenti al proprio partito, non veniva presa sul serio.

Il Pd risultava alla fine centrale grazie alla sua capacità di includere, anche attraverso le primarie, un arco di forze più ampio. Poi Sel è stata sostituita da un pulviscolo di liste che ruotano nervosamente intorno al Pd, mentre nel Pd è prevalso il riflesso difensivo di un ceto politico che si era visto sottrarre posizioni a cui avrebbe potuto ambire da parte di candidati indipendenti o da esponenti di altri partiti.

Gli errori di Renzi hanno poi definitivamente favorito il prevalere delle correnti culturalmente diffidenti verso le primarie, più affezionate all’idea o alla narrazione del “partito strutturato”, le stesse che avevano avversato l’Ulivo e la sua trasformazione nel Pd a vocazione maggioritaria.

Da qui anche la vistosa contraddizione di Enrico Letta, che predica l’ispirazione ulivista mentre pratica una linea contraria. Quella d’altro canto preferita dalla larga maggioranza dei grandi elettori di Nicola Zingaretti, grazie ai quali ha ereditato il ruolo di segretario, senza passare per le “primarie”.

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