Il primo a sbattere la porta, all’indomani della vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd, è Beppe Fioroni, ex ministro, ex Dc, ex Margherita, consigliere di Lorenzo Guerini al ministero della Difesa. Dice che il Pd «è diventato un partito di sinistra». L’addio in sé poco sposta: Fioroni era già in grande sofferenza con il segretario Enrico Letta e ora va a rimpolpare una «piattaforma popolare».

Se un Fioroni farà primavera, ovvero darà il via a una scissione (esclusa da tutti) o ad altre fuoriuscite, lo si vedrà nelle prossime ore, via via che la neosegretaria deciderà il suo gruppo dirigente, anche prima delle svolte nella linea politica: il o i suoi vice, la sua segreteria, i o le capigruppo di Camera e Senato e il presidente dell’Assemblea.

Scelte in cui deve mettere insieme due cose che fanno a pugni: da una parte la richiesta di cambiamento radicale di chi l’ha eletta nei gazebo, dall’altra la promessa di inclusione degli sconfitti. Anche perché dal terzo polo gli inviti ai riformisti sono ormai smaccati ed espliciti.

L’arrivo al Nazareno

Lunedì pomeriggio Schlein ha fatto il suo ingresso da leader al Nazareno per il “passaggio di consegne” con il segretario uscente. Un gesto solo simbolico: ufficialmente sarà eletta dall’Assemblea nazionale il 12 marzo. Lì dovrà presentare la sua squadra: la prima occasione per dimostrare di non voler spaccare il partito, salvo inciampi delle prossime ore. Gli sconfitti per ora restano in attesa. La mossa spetta a lei, a partire magari da un confronto con Stefano Bonaccini. Ma il contraccolpo che vivono è pesante. Il problema, spiegano, è soprattutto nella “base” degli iscritti che lo aveva indicato come segretario a nettissima maggioranza.

Lo si capisce dalle ponderate parole di Alessandro Alfieri, portavoce di Base riformista ma anche tra gli uomini più vicini al presidente dell’Emilia-Romagna: «Molti sono preoccupati delle dinamiche che, se non gestite, può innescare l’esito del voto». L’area che puntava a «un Pd con un profilo riformista e popolare» non smobilita, assicura, ma sarà «leale con la nuova segretaria».

Leale o collaborativa però dipende, viene spiegato, da lei. Che ieri al Nazareno, in una breve conferenza stampa, ha dato segnali di aver capito il problema, forse più della notte della vittoria, quando il ringraziamento a Bonaccini era arrivato a fine discorso: «Il massimo sforzo di questi giorni sarà quello di lavorare per la massima unità di questo partito». Che è anche la preoccupazione dei dirigenti accusati di aver fatto la regia della sua corsa, come Andrea Orlando: «Sta a Schlein, come a chiunque avesse vinto, ricomporre l’unità il giorno dopo una competizione che ha visto comunque un peso significativo di chi ha perso».

Schlein è donna prudente, l’unità però è un delicato di equilibrio per una segretaria aspettata al varco su temi sensibili come il posizionamento filoatlantico sulla guerra russo-ucraina che per esempio Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, considera la condizione per restare nel Pd. Anche perché il Pd esprime il presidente del Copasir, l’ex ministro Lorenzo Guerini, anche lui ben piantato sulla linea filo Kiev, e peraltro anche capo della minoranza.

Con lei o contro di lei

Dall’altra parte però ci sono quelli che si sono schierati con lei. Con ogni probabilità la sua segreteria sarà l’espressione della promessa «volti nuovi e nuova classe dirigente». Per la vicesegreteria circola il nome del deputato Marco Furfaro, fra i primi a schierarsi con Schlein, che però giura «di non saperne niente». Un altro deputato, Marco Sarracino, sarà il capo dell’organizzazione.

Poi ci sono le presidenze dei gruppi parlamentari, dove quelli che l’hanno sostenuta sono minoranza: 24 deputati su 69 e 11 senatori su 38, al netto di folgorazioni sulla via della vincitrice. Le due capogruppo Debora Serracchiani (Camera) e Simona Malpezzi (Senato), entrambe schierate con Bonaccini, le consegneranno le loro dimissioni. Al loro posto circolano i nomi di Chiara Gribaudo e Chiara Braga per Montecitorio, ma anche quello dell’ex ministro Peppe Provenzano. Per il Senato quello di Francesco Boccia, anche lui ex ministro.

Ma, visti i numeri, Schlein non potrà che cercare un accordo. Procedere per strappi la esporrebbe al rischio di fare elegge i “suoi” ma poi non governare i parlamentari, grande classico del Pd. Infine, il presidente dell’Assemblea. C’è chi ipotizza che chiederà di farlo a Bonaccini, che con grande eleganza ha già promesso collaborazione per tenere unito il partito. O comunque a un esponente autorevole di cultura riformista. Sempreché la scelta sia quella di consolidarsi all’interno, per darsi le gambe per procedere alla svolta che ha promesso.

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