È bersaglio di quotidiani attacchi sessisti triviali, non si capisce come non le facciano saltare i nervi. E invece lei, come Rhett Butler di Via col vento, francamente se ne infischia. Lascia che qualcuno dei suoi risponda, ma per lo più se ne frega.

Un po’ perché in questi primi giorni della sua rivoluzione, Elly Schlein deve fare i conti con questioni più serie di un quisque sindaco di Grosseto che la insulta; soprattutto perché pratica quel femminismo coevo per cui non tende a percepirsi, e farsi percepire, come una vittima.

C’è anche questa, forse soprattutto questa, fra le novità di una leader «femminista e non solo femminile» di cui ha parlato sul nostro giornale la filosofa Giorgia Serughetti, insieme «all’agire per le donne, per i loro diritti» contrapposto, non per caso, al «semplice “essere donna”» di Giorgia Meloni, che più spesso si declina nell’essere mamma.

Più che un salto di qualità, è una vera ribaltata per il Pd. Dove fin qui, negli anni, sono fiorite a intermittenza stagionale rivendicazioni di donne contro il «partito maschilista». Uno, nel 2018, fu all’indomani delle elezioni, 500 firme: «Per la prima volta - vi si leggeva - il Pd è sovrastato nella rappresentanza femminile parlamentare dal M5S e dalla destra e mentre chi ha vinto le elezioni affida la leadership dei gruppi parlamentari e le cariche istituzionali alle elette, nel Pd un gruppo dirigente sempre più chiuso si trincera in delegazioni e “trattative” di soli uomini». Sotto accusa erano il segretario Matteo Renzi e i capicorrente ma anche le famose pluricandidature di donne.

Poi si ripete: all’indomani della nascita del governo Draghi, febbraio 2021, c’è la rivolta delle donne contro l’indicazione di tre ministri, tutti maschi (Dario Franceschini, Lorenzo Guerini, Andrea Orlando) a cui si arrende il segretario Nicola Zingaretti, che si trova beffato per non aver deciso la delegazione, e pure mazziato con l’accusa di misoginia. Zingaretti si dimette, ma per la prima questione.

E Enrico Letta, al suo arrivo, corre ai ripari e impone due donne alla guida dei gruppi parlamentari. Poi però si ripete ancora: alle politiche 2022 di nuovo le pluricandidature abbattono la presenza di donne alle camere. Con conseguente codazzo di polemiche e lacrime di coccodrillo (e coccodrille). Per di più da destra è arrivata la sberla: Giorgia Meloni prima premier italiana. Prima questione: la vittoria di Schlein è figlia della reazione a questo schiaffo?

Sì, sostiene l’europarlamentare Elisabetta Gualmini, già vice di Bonaccini alla regione Emilia-Romagna, incarico che poi è finito proprio a Schlein: «Ci voleva Meloni per far capire che il potere bisogna prenderlo e non aspettare che te lo diano. Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, Angela Merkel, Roberta Metsola sono tutte donne di destra o non di sinistra: vorrà dire qualcosa?

La sinistra è stata sempre invischiata nella sindrome della cooptazione, che è la sindrome di Cenerentola: fare un passo indietro e aspettare che il leader ti scelga. Con Meloni al governo ci siamo accorti di questo. Elly è stata brava ad avere il coraggio di fare una battaglia».

Occhio però: se l’elezione di Schlein è arrivata dopo il successo alle urne di Meloni, dopo la vittoria di Schlein Meloni ha tentato una posa femminista. Così dalla foto di copertina del settimanale Grazia predica: «Ragazze, liberiamo il nostro potere». Chi rincorre chi?

La pratica parte prima

Torniamo a sinistra, seconda questione: a un Pd con questi precedenti, basterà una segretaria? «Elly Schlein non è solo la prima segretaria di un partito della sinistra ma è anche espressione di un nuovo modo di costruire la leadership», secondo Livia Turco, che alla vigilia delle primarie ha organizzato un confronto pubblico fra candidata e femministe di altre generazioni.

«Ha messo in gioco carattere, coraggio, ambizione insieme ad una pratica politica del noi. Ha saputo interpretare il distacco dei giovani, delle donne, del popolo di sinistra dal Pd e dalla politica. Ha costruito un rammendo sociale».

Quanto ai fondamentali del femminismo «è una donna della sua generazione ma consapevole del valore della saldatura con le generazioni precedenti. È naturalmente femminista come pensiero e modo di vivere. Non so quanto creda nella sorellanza e nella pratica della relazione tra donne. Sarà interessante verificare se nel dirigere il Pd farà leva su questa pratica».

Ma poi ci sono quelle che l’hanno eletta e quelle che invece no, non tutte sorelle: «Sta a loro sostenerla ma anche farle capire che il suo successo è quello di tutte. Tocca a lei fare gesti che investano sulla relazione tra donne. L’inizio è promettente: tante donne capolista per l’assemblea nazionale, l’umanità prima ancora della politica di immergersi nello strazio dei morti in mare a Crotone. È una tosta, ma sarà dura scompaginare la costituzione materiale del Pd».

La pratica parte seconda

Per farlo bisognerà «superare metodi e pratiche a misura di uomini di cui finora il Pd è stato intriso», secondo Valeria Valente, senatrice, già presidente della Commissione sulla violenza di genere, «Dovremo aggiungere alla forza simbolica e pratica di Schlein la determinazione di tutti noi, a partire da noi donne democratiche: può rappresentare un nuovo inizio per il Pd». Ma attenzione «l’autonomia e la pratica femminista sono scelte che possono costare care».

E non automatiche per tutte: «Molto aiuterà se saremo in grado insieme di recuperare un pluralismo fondato su idee e non su filiere di fedeltà. E un nuovo modo di stare insieme riconoscendo le differenze a partire da quella tra uomini e donne. Costruiremo un partito in grado di dare spazio a competenze, visioni e talenti femminili. E spingeremo le donne a credere in noi molto di più».

Una papa straniera

Terza e ultima questione: perché a fare l’assalto al cielo non ha provato una donna di partito, neanche della sua Conferenza delle donne? La portavoce, Cecilia D’Elia, si è schierata con Schlein e legge la vittoria comunque come una conferma del percorso interno: «In tante avevamo creduto che questo partito potesse essere il luogo in cui far vivere anche il femminismo, un rapporto nuovo con le associazioni e movimenti, la ricostruzione del senso di una storia politica delle donne e delle loro battaglie, una proposta di cambiamento attraversata dalla libertà femminile».

Ma a tentare una spiegazione è Monica Nardi, portavoce di Letta, dunque osservatrice molto speciale; femminista ma poco indulgente nei confronti degli atteggiamenti rivendicativi delle dirigenti: «È evidente che l’elezione di Schlein segna una cesura. E mi piace ricordare che nei due anni della segreteria Letta siamo passati dal cortocircuito sulle donne dem in rivolta perché escluse dal governo Draghi a un potere al momento tutto femminile o quasi, con quattro donne su cinque nei ruoli apicali».

Ma non è detto che una leadership dichiaratamente femminista risolva tutto da sola: «Nei giorni delle liste per le elezioni politiche, il confronto nella Conferenza delle donne sembrava una puntata di Orange is the new black: le escluse, le salvate, le note anonime, altro che sorellanza. Mi chiedo: ha ancora senso un organismo così?».

Domanda amara da persona informata dei fatti, che si risponde ancora più amaramente: «A me pare che il conflitto, motore di ogni conquista femminista, in questi anni sia stato riservato solo alla rincorsa di un posto al sole. Le “donne di sotto”, le donne che vivono e spesso non ce la fanno più, sono rimaste molto, troppo, sullo sfondo. E lo abbiamo pagato nel rapporto col Paese. Il femminismo senza un ritorno anche faticoso nei luoghi del conflitto e del disagio non può trasformarsi solo in un X Factor per un posto in parlamento».

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