Ci sono anche tanti progetti che rispettano lo spirito del piano Next Generation Eu, nell’ultima bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) del governo Conte, datata 29 dicembre. Per esempio, 360 milioni di euro per finanziare progetti di ricerca di cinque anni gestiti da giovani ricercatori, sul modello degli ERC europei, per attirare talenti in Italia e dar loro modo di fare esperienze importanti a fini di carriera. Oppure il programma per potenziare la formazione in materie STEM, matematica e scienze, nelle scuole.

Però nelle 153 pagine del piano – il documento è disponibile gratis sulla app di Domani – c’è anche la classica frammentazione della spesa in mille rivoli che è tipica delle leggi di Bilancio tradizionali e una serie di sostegni ad alcuni settori e aziende che riceveranno la manna europea senza la richiesta di dare nulla in cambio, il caso più evidente è quello dell’Eni che si vede finanziare una transizione dal petrolio alle energie verdi per miliardi di euro.

Tutti i bonus

Non siamo ancora al piano definitivo, ma l’impianto ormai è chiaro: il governo Conte usa il Next Generation (209 miliardi complessivi) in gran parte per finanziare bonus e incentivi già decisi che poco c’entrano con la ricostruzione post Covid.

Per esempio, il bonus cashback, quello presentato a metà dicembre per spingere agli acquisti nei negozi fisici proprio mentre i medici scoraggiavano invece assembramenti da shopping per l’alto rischio di contagio: 4,75 miliardi che il ministero dell’Economia presenta come “investimento”.

Il vero beneficio sarà che milioni di italiani si registreranno alla app IO per interagire in digitale con la pubblica amministrazione che però finora non ha funzionato molto bene, tanto che sarà tra i beneficiari di un grosso stanziamento da 2,5 miliardi per digitalizzare la pubblica amministrazione.

Fin qui siamo comunque a interventi di politica economica su cui si può discutere – non viene mai indicato un obiettivo facilmente misurabile di risultato – ma tradizionali, così come ormai tradizionale è la scelta di investire una cifra enorme sul superbonus edilizio: 22,4 miliardi per estendere a 2023 il rimborso del 110 per cento delle ristrutturazioni, un beneficio settoriale (edilizia) che va a beneficio dei contribuenti più abbienti, quelli che hanno case di proprietà, lavori da fare e disponibilità per anticipare la somma, con cliente e impresa che hanno l’incentivo a spendere il più possibile tanto paga lo stato.

Le solite mance

Fuori da una logica di politica economica ci sono le mance e misure dall’impatto misterioso sulla crescita ma da chiaro beneficio politico per i ministri proponenti: per esempio ben 290 milioni per lo sviluppo degli studi e delle iniziative culturali di Cinecittà a Roma, ora a controllo pubblico, o i 100 milioni alla Fondazione Ferrovie dello Stato per «il recupero delle linee ferroviarie storiche e del patrimonio storico FS collegato e la valorizzazione degli itinerari e del relativo patrimonio tangibile e immateriale», si può immaginare l’impatto sul Pil e sulla prossima generazione di entrambe le misure. Peraltro, i treni storici riceverebbero la stessa cifra che i centri culturali da aprire nelle periferie delle città, la cui utilità è più percepibile.

Poi c’è il capitolo Eni, la cui efficacia nell’azione di lobbying si misura sia dall’entità delle somme stanziate sia dal fatto che mai viene citata esplicitamente anche quando è la sola beneficiaria dell’intervento.

Eni è una società controllata dal Tesoro attraverso la Cassa depositi e prestiti, ma è anche quotata in Borsa, il 70 per cento degli azionisti sono privati, si finanzia sul mercato con emissione di bond di cui ogni volta celebra la domanda in eccesso rispetto all’offerta.

Negli ultimi anni l’amministratore delegato Claudio Descalzi ha annunciato più volte la determinazione alla svolta green, meno petrolio (oggi poco remunerativo, a 40 dollari al barile) e più energie rinnovabili (e spesso sussidiate). Mai però ha specificato che contava di farsi pagare questa svolta verde da aiuti pubblici, che peraltro sono in gran parte a debito, quindi con un trasferimento dalla prossima generazione agli azionisti di Eni, tramite dividendi.

Il ministero del Tesoro propone di stanziare 540 milioni per «quattro impianti waste to fuel Impianto di riciclo chimico a Mantova una bioraffineriaintegrata per bioetanolo bioplastica e lignina a Crescentino/Vercelli». Tutta roba Eni, a Vercelli finora l’azienda di Descalzi ha annunciato investimenti solo per 15 milioni. A Gela 70 milioni.

La conversione verde di Eni

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Poi ci sono le risorse del “primo hub di decarbonizzazione nell'Europa meridionale costruendo a Ravenna un sistema di cattura, trasporto e iniezione del carbonio, prodotto dal distretto industriale di Ravenna-Ferrara-Porto Marghera”, un progetto contestato da vari movimenti e associazioni ambientaliste perché
«La non verrebbe catturata dall'atmosfera, ma da nuovi processi di estrazione del metano poi convertito in idrogeno».

La somma delle risorse che andrebbero all’Eni, almeno di quelle facilmente identificabili, è di oltre 3,1 miliardi di euro: risorse utili in un momento in cui l’azienda cerca di rassicurare i soci sull’impatto del prezzo del petrolio troppo basso riducendo la spesa per investimenti.

Nella bozza di Recovery Plan il Sole 24 Ore ha contato bonus per 55 miliardi e 120 miliardi di investimenti, il resto sono per voci ibride investimento/incentivo. Difficile stabilire quanti siano davvero nell’interesse del paese e quanti soltanto di singoli settori e aziende, quello di Eni non è certo l’unico caso di interventi su misura che diventano sussidi, è soltanto quello più evidente.

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