Il susseguirsi di litigi, congiure, alleanze tradite e promesse di rinnovamento che ha caratterizzato il Movimento 5 stelle negli ultimi anni avrebbe invitato chiunque ad agitarsi, prendendo parte alla lotta nel fango permanente che ha coinvolto tutte le figure di vertice, da Beppe Grillo a Davide Casaleggio passando per l’«autoreggente» Vito Crimi e precipitando infine su Giuseppe Conte, neoleader già vecchio.

Luigi Di Maio, invece, ha avuto la notevole intuizione di stare fermo. Da quando ha lasciato la guida politica del Movimento ha resistito alla tentazione di gettarsi in una mischia da cui finora sono usciti più vinti che vincitori e si è concentrato sul mestiere di ministro degli Esteri, ruolo che sembrava tagliato per tutti tranne che per lui e che invece ha interpretato con ordine e disciplina estranei all’agitazione movimentista della tradizionale sensibilità Cinque stelle.

Il merito è soprattutto di Ettore Sequi, diplomatico stimatissimo che Di Maio ha voluto come capo di gabinetto all’inizio della sua esperienza al ministero, nel 2019, e che poi è stato promosso a segretario generale della Farnesina. Due anni fa il Foglio lo ha ironicamente definito il «navigator» di Di Maio, ma a conti fatti è stato molto più di questo. È stato mentore e sherpa di un leader assai poco incline alla politica internazionale, lo ha condotto in un percorso fatto di organizzazione e studio dei dossier, ha silenziosamente messo argini e dato struttura alla sua azione e gli ha messo la cera nelle orecchie quando le sirene della zuffa politica cantavano per lui. Chi ha visto il diplomatico accanto al ministro lo definisce «paterno».

Come un padre Sequi in questi anni ha difeso Di Maio dagli attacchi, ma soprattutto lo ha difeso da sé stesso, dai potenziali danni che avrebbe potuto autoinfliggersi mentre il suo universo politico ruotava vorticosamente. Il rapporto con Sequi si è «consolidato come non mi sarei mai aspettato», ha scritto Di Maio nel libro Un amore chiamato politica.

Quando è arrivato alla Farnesina nel 2019 ministro degli Esteri ha voluto come capo di gabinetto qualcuno che conosceva, e Sequi era l’ambasciatore a Pechino quando Di Maio conduceva la politica filocinese del Movimento dal ruolo di vicepremier.

Quella che inizialmente doveva essere una spalla temporanea per mostrare a Di Maio i meccanismi della Farnesina è diventato il maestro che gli ha permesso costruirsi una credibilità.

Chi ha lavorato con Sequi quando era a Pechino lo ricorda come «preparatissimo e con una grande capacità di leggere le situazioni immediatamente».

L’intesa col ministro è stata immediata, e i due hanno preparato insieme il terreno per il memorandum sulla Via della Seta, controverso successo del governo Conte I.

Qualche mese dopo, traslocando di ministero, Di Maio ha deciso di riportare in Italia l’ambasciatore. Sequi ha messo a disposizione l’esperienza accumulata in 35 anni di carriera, illuminata da una certa visione del mondo e della diplomazia che ha ereditato da Francesco Paolo Fulci, leggendaria feluca che ha fatto scuola.

La carriera diplomatica

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Alla fine degli anni Ottanta Sequi è stato console a Teheran. Già in quell’occasione si è segnalato per la determinazione, lo studio maniacale dei dossier e l’immensa capacità di lavoro, tratti che quadrano con il temperamento sardo. Da giovane diplomatico si permetteva alcune piccole forzature del protocollo per accertarsi che il personale diplomatico lavorasse con uno zelo paragonabile al suo, in linea con uno dei tanti motti fulciani: «Fidarsi è bene, controllare è meglio».

Queste caratteristiche non sono sfuggite a Fulci, colonna portante della diplomazia italiana dal Dopoguerra.

I due si sono incontrati durante l’ultimo incarico del diplomatico siciliano. Negli anni Novanta, il rappresentante permanente d’Italia alle Nazioni unite aveva raccolto intorno a sé un gruppo di giovani collaboratori, soprannominati “Fulci Boys”: una squadra infallibile che si muoveva seguendo la dottrina del suo maestro, un misto tra strategia militare e lavoro di squadra.

Nel libro L’Italia all’Onu 1993-1999, che raccoglie contributi degli allievi di Fulci, Sequi espone un “doppio decalogo” degli insegnamenti dell’ambasciatore. Le prime tre massime sono indicative: «Lealtà, innanzitutto», «cogli l’occasione al volo», «ingegnati». La severità strategica dell’ambasciatore ha dato i suoi frutti.

Si dice che Fulci conoscesse tutti i nomi di battesimo dei diplomatici accreditati al Palazzo di vetro. Stringere un rapporto personale anche con i rappresentanti dei paesi più trascurati nei consessi, ma comunque portatori di voti all’assemblea dell’Onu, gli aveva garantito un pacchetto di consensi preziosissimi nelle elezioni. I maliziosi dicono che la strategia era dettata dal desiderio di riconoscimento personale più che dallo zelo per il suo paese, ma ad ogni modo Fulci in quegli anni ha vinto un numero spropositato di battaglie diplomatiche, 27 su 28, record mai più toccato da una delegazione italiana.

Il capolavoro di Fulci è stato aver impedito la riforma del Consiglio di sicurezza, impedendo a Germania e Giappone di ottenere un seggio permanente.

Il suo approccio è fondato sulla disciplina ferrea e la dedizione totale al lavoro. «Gli anni di New York sono indimenticabili, abbiamo creato un vero dream team, un team dei sogni», ha detto Fulci lo scorso marzo in occasione dei festeggiamenti per i suoi novant’anni. Le carriere dei Fulci Boys lo confermano: molti oggi occupano posizioni apicali alla Farnesina.

Sebastiano Cardi ha preso il posto di capo di gabinetto di Di Maio quando Sequi è diventato segretario generale sostituendo Elisabetta Belloni, nominata capo del Dis da Mario Draghi. Francesco Maria Talò è rappresentante permanente d’Italia alla Nato, e Giorgio Marrapodi è ambasciatore in Turchia.

Per i discepoli di Fulci, il maestro era molto più di un diplomatico, ma «un condottiero d’antan o un patriota risorgimentale», scrive Sequi. La chiave dell’efficacia della sua azione era la pretesa elevatissima nei confronti di sé e dei suoi collaboratori, nei confronti dei quali era estremamente esigente. Esattamente come lo è oggi Sequi con sé stesso e con le persone che lo assistono: per il segretario generale non esistono orari o separazione tra la vita personale e quella professionale. Non c’è diplomatico che non abbia ricevuto una sua e-mail a orari improbabili della notte. E non c’è funzionario che non sottolinei la capacità organizzativa che l’ambasciatore mette in pratica con disciplina militaresca.

Creando anche qualche malumore. Qualcuno parla della struttura rigida, gerarchica e iperstrutturata come del relitto di un ancien regime diplomatico, mentre nel frattempo il mondo è cambiato.

Oltre all’Iran e alla Cina, Sequi è stato a Kabul dal 2004 al 2010, prima come rappresentante Italiano, poi come rappresentante speciale dell’Unione europea per Afghanistan e Pakistan negli anni più caldi della guerra.

L’intesa col ministro

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L’intesa fra Sequi e Di Maio ha anche disinnescato la tradizionale distanza tra l’apparato ministeriale e lo staff del ministro, due realtà che si muovono lungo direttrici differenti e con obiettivi non sempre sovrapponibili. «Quando Sequi parla, Di Maio ascolta. Non è una cosa scontata come potrebbe sembrare», racconta un diplomatico. La prova di quanto Sequi abbia fatto suo il ruolo di maestro nei confronti di Di Maio è la sua rinuncia all’incarico di ambasciatore a Bruxelles, che, secondo i patti, avrebbe dovuto essere suo otto mesi dopo il ritorno a Roma.

Sequi ha scelto di rimanere alla Farnesina, dove tiene insieme il mondo politico e gestisce i tecnici. La capacità del segretario generale di parlare sia ai diplomatici che ai politici gli deriva anche dalla sua esperienza come capo di gabinetto dal 2014 al 2016, prima del suo incarico a Pechino, con Federica Mogherini e Paolo Gentiloni.

Se però si guarda all’esperienza generale di Sequi, gli incarichi “romani” rappresentano solo una minima parte del suo curriculum. L’ultimo suo ritorno a Roma gli ha anche procurato un problema giudiziario: una donna che aveva frequentato in passato aveva reagito al suo rientro in Italia con minacce e accuse violente tanto da essere messa agli arresti domiciliari per stalking. Valentina Pizzale è poi tornata in libertà un paio di mesi dopo.

L’intesa col ministro ha ora l’aria di un’amicizia sincera. Sequi ha condotto Di Maio nel percorso tortuoso della diplomazia, trasformandolo dallo scalmanato capopopolo che annuncia dal balcone l’abolizione della povertà al ministro degli Esteri che esibisce con orgoglio i complimenti di Berlusconi.

Quando Di Maio ha detto che Draghi gli ha fatto «un’ottima impressione» ha suscitato risate, ma la sua disciplinata permanenza nel governo dell’ex presidente della Bce – al netto di qualche errore clamoroso: il frettoloso ritiro dell’ambasciatore dall’Afghanistan dopo la caduta di Kabul è una ferita ancora non rimarginata con palazzo Chigi – fa apparire quella dichiarazione come una fanciullesca profezia. Di Maio potrà contare sugli insegnamenti di Sequi anche in vista del suo futuro politico, data la periclitante leadership di Conte. Può prendere un’altra delle massime del decalogo fulciano, ispirata al motto dei boy scout: «Insisti, persisti, resisti, conquisti».

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