La premier scioglierà la riserva più avanti, intanto anche in FdI è partito il risiko delle candidature. Le più penalizzate dalla candidatura rischiano di essere le altre donne
C’è ancora tempo, non troppo, in vista delle elezioni europee. Le candidature vanno depositate entro il 24 aprile e i motori di chi si è già messo nell’ordine di idee di correre sono già accesi, anche dentro Fratelli d’Italia. Del resto le circoscrizioni sono sterminate – 16 milioni di persone per quella del nord ovest, quasi 14 milioni per quella del sud. Con migliaia di chilometri da macinare, moltissimo denaro va ipotecato per l’organizzazione e la caccia al voto personale diventa spietata. Per questo bisogna muoversi presto, ma le decisioni di molti, soprattutto molte papabili candidate, verranno determinate dalla risposta che ancora manca: se la premier Giorgia Meloni si candiderà o meno.
Da via della Scrofa escono voci discordanti. Meloni sarebbe tentatissima, come ha chiarito anche nella conferenza stampa di fine anno, di «verificare il consenso» dopo questo prima parte di legislatura, ma teme che la campagna elettorale sia incompatibile con gli impegni di palazzo Chigi.
Inoltre c’è il rischio di inasprire i rapporti all’interno della maggioranza “prosciugando” gli alleati di Lega e FI – i cui leader Matteo Salvini e Antonio Tajani hanno escluso di correre – con la possibilità che, dopo le elezioni, i consensi dei due partiti minori del centrodestra, sommati, valgano meno della metà di FdI.
Per ora la linea della premier è quella di attendere, lavorando a due liste parallele – una con e una senza di lei – e intanto di vedere come andranno le prossime competizioni regionali: Sardegna (25 febbraio), Abruzzo (10 marzo) e Basilicata (21 e 22 aprile).
Non solo, la possibile discesa in campo di Meloni preoccupa anche tutte le donne che aspirano a un posto in lista, con un’ansia che le accomuna alle colleghe e avversarie del Partito democratico, dove anche Elly Schlein non ha ancora sciolto la riserva.
Il problema donne
La legge elettorale europea è diabolica: prevede che si possano esprimere fino a tre preferenze «di candidati di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda e terza preferenza». In altre parole, se Meloni si candidasse in tutte le circoscrizioni lei sarebbe con tutta probabilità il primo nome sulle schede dei votanti di FdI, col risultato che la seconda preferenza dovrebbe obbligatoriamente andare a un uomo e solo la terza a un’altra donna.
Con il risultato che la presenza della premier, di fatto, prosciugherebbe lo spazio elettorale femminile, visto che solo pochissimi elettori arrivano nell’urna con tre nomi alternati per genere da scrivere sulla scheda (la stima è che appena il 20 per cento degli elettori esprima due preferenze, chi ne esprime tre è ancora meno).
Risultato: le donne candidate dovranno essere campionesse di preferenze e l’identikit ideale è quello di appartenere alle regioni più popolose dei rispettivi collegi, di avere una rete territoriale esterna al partito che le sostenga individualmente e di avere la maggior visibilità mediatica possibile sui canali tv locali e nazionali, per sfruttare il voto d’opinione.
Non a caso, uno dei nomi che già sarebbe in lizza è quello della veneta Elena Donazzan, in regione dal lontano 2000 ed eletta con quasi 11mila preferenze. La sua corsa sarebbe quasi certa e con una doppia funzione: trovare nuova collocazione nel caso in cui nel 2025 il candidato presidente sia ancora Luca Zaia oppure preparare il terreno per una sua discesa in campo come governatrice del Veneto. Con la stessa logica, papabile per il collegio Centro è la consigliera di Roma, Rachele Mussolini, miss preferenze con 8.200 voti.
Per il sud, invece, la donna più votata in regione Calabria, Luciana De Francesco con 4.500 voti. Per il Centro, però, continua a ritornare anche l’ipotesi di Arianna Meloni: la diretta interessata l’ha escluso con un’intervista al Secolo d’Italia, spingendo invece per la candidatura della sorella.
Nel partito il ragionamento è che, se la premier facesse un passo indietro, nel collegio che comprende il Lazio il nome di Arianna sarebbe perfetto.
La questione sud
Il sistema elettorale per le europee è di tipo proporzionale, ma la sfida aperta riguarda le preferenze. Il dato storico mostra come la competizione per strappare un voto in più sia molto più accanita nella circoscrizione sud, dove la soglia di preferenze personali per venire eletto sia enormemente più alta rispetto agli altri collegi.
Basti pensare che in quello del nord ovest – il più popoloso che contiene Lombardia, Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria – l’ultima degli eletti nel 2019 è stata Tiziana Beghin del M5s, che ha raccolto poco più di 15mila preferenze. Nel collegio sud – che ingloba Campania, Calabria, Puglia, Basilicata, Molise, Abruzzo – il fanalino di coda è stato il Cinque stelle Mario Furore, che però ha preso 32mila voti personali.
A incidere sul successo, poi, è anche il dato regionale dentro i collegi: tendenzialmente a spuntarla sono sempre i candidati provenienti dalle regioni più popolose. Questa è una delle variabili che rendono le europee elezioni poco influenzabili dai diktat di partito.
Esempio ne è l’ipotesi nella Lega di spedire a Bruxelles il presidente sardo uscente, Christian Solinas, per risarcirlo della mancata ricandidatura. Peccato che, nel collegio Isole, la Sicilia faccia la parte del leone e non è facile che un candidato sardo la spunti.
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