Il ministro degli Esteri è in difficoltà per le vicende giudiziarie sui big del partito nel Mezzogiorno. L’attacco sconsiderato della premier al Manifesto di Ventotene ha creato malumori tra gli azzurri
Il taglio delle tasse ancora non si vede, l’europeismo va così così e pure sulle riforme i passi in avanti sono minimi. Il piatto di Forza Italia al governo, insomma, continua a piangere.
Giorgia Meloni preferisce assecondare Matteo Salvini quando punta i piedi, mentre lascia Antonio Tajani in un angolo.
Nel frattempo il ministro degli Esteri, tra guerre e tensioni diplomatiche, deve fare i conti con i problemi del partito al Sud relative alle indagini sul presidente della regione Molise, Francesco Roberti, e all’arresto della collaboratrice di Fulvio Martusciello, eurodeputato di FI e macchina di preferenze in Campania.
Gira e rigira gli azzurri stanno diventando sempre più l’anello debole dell’alleanza. Anche perché alla fine, per indole, Tajani evita lo scontro, a differenza del leader leghista. Un esempio è stato il ddl Sicurezza: i rilievi di Forza Italia – sulle madri detenute e sul divieto di vendita di sim ai migranti irregolari – sono stati gli stessi del Quirinale.
Ma la rivendicazione è stata impalpabile. Anche su dossier più rilevanti il canovaccio è lo stesso: sul taglio delle tasse al ceto medio è calata una coltre di silenzio. Da un lato la Lega rilancia il condono fiscale, attraverso la rottamazione delle cartelle, dall’altra FI è sempre molto tiepida sulla battaglia per il taglio delle aliquote Irpef fino a 50mila euro.
Malumori europeisti
In questo clima le scorie dell’invettiva di Meloni contro il Manifesto di Ventotene erano ancora in circolo nel day-after a Montecitorio. Il vicepremier e ministro degli Esteri non ha gradito il comportamento della presidente del Consiglio.
Dopo aver tenuto i toni bassi al Senato, la “fiammata” della premier alla Camera è parsa inspiegabile. «Siamo dentro il Ppe e abbiamo alimentato delle aspettative in Europa rispetto all’azione del governo», spiega un parlamentare di FI, vicino al segretario. «Quindi», è l’altro pezzo del ragionamento, «le parole di Meloni hanno creato dei malumori e anche degli imbarazzi».
Come spesso accade, non c’è stata alcuna reazione ufficiale. Solo qualche mugugno all’insegna del «dobbiamo ribadire il nostro europeismo». Un principio sopito. «Meloni deve barcamenarsi tra le posizioni della Lega e l’Unione europea. L’importante è che non ci siano divisioni sui voti», è la sintesi della posizione dell’inner circle di Tajani, che ha calmato gli impeti di chi avrebbe preferito battere i pugni sul tavolo.
La famiglia Berlusconi osserva con un certo fastidio allo scarso protagonismo di Forza Italia, sovrastata dall’iperattivismo leghista. Il problema non è tanto l’atto di accusa meloniano contro il Manifesto di Ventotene, lo spettro è più ampio. «All’orizzonte non c’è alcuna possibilità di un cambio di leadership, allo stato attuale non ci sono alternative a Tajani», è la premessa che viene fatta anche da chi non ama il segretario.
Già in passato c’era stata una richiesta di maggiore dinamismo fatta da Pier Silvio Berlusconi, mettendo sul tavolo la questione del rinnovamento dei volti da mandare in televisione.
Tajani ha fatto cadere la cosa nel vuoto, mettendo sul banco i risultati ottenuti in termini di bilancio partitico e tesseramento. Così le ambizioni di leadership del presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, diventano velleitarie.
Nella mattinata di giovedì alla Camera intorno a Raffaele Nevi, vicecapogruppo alla Camera e portavoce di FI, si sono ritrovati vari deputati, molto vicini al segretario Tajani, come Alessandro Battilocchio, Stefano Benigni, Alessandro Sorte e Roberto Pella. Lo scopo? Chiacchiere in libertà, certo, e un punto informale della situazione.
Tra rilancio e problemi
La controffensiva di Forza Italia nella maggioranza vuole essere pratica, ottenendo risultati sul campo. In testa c’è la riforma della giustizia con la separazione delle carriere, antico sogno di Berlusconi. Tra i forzisti c’è poi l’intenzione di portare a casa un’altra piccola rivoluzione: la legge di Roma capitale, che trasformerebbe la città in una sorta di regione. È una di quei testi che mettono tutti d’accordo, ma che per motivi vari non arrivano mai in porto.
FI l’ha rilanciato con Francesco Battistoni, uomo forte nel Lazio per Tajani, promotore di un convegno ad hoc. La legge ha fatto qualche passo in avanti alla Camera con un ciclo di audizioni informali in commissione Affari costituzionali. La preoccupazione è che il cammino possa essere accidentato. La Lega chiede in cambio qualcosa, come il ripristino delle province, prevedendo di nuovo le elezioni per i consigli provinciali e per i presidenti.
Intanto dentro Forza Italia la situazione non è delle migliori, soprattutto a causa delle vicissitudini giudiziarie. Tajani sente suonare dei campanelli di allarme al Sud, roccaforte elettorale del partito. In Campania, granaio di voti azzurri, inquietano le questioni che stanno investendo l’eurodeputato Fulvio Martusciello, leader regionale e sempre più importante nelle gerarchie nazionali.
Ieri è stata arrestata la sua collaboratrice, Lucia Simeone, su mandato delle autorità belghe. Una vicenda che fa il paio con il caso Huawei. Alcuni europarlamentari avrebbero ricevuto regali. Il nome di Martusciello compare ma non è indagato. La pressione mediatica è comunque alta. Di sicuro sono crollate le quotazioni per una sua candidatura alle prossime elezioni regionali in Campania.
Sotto inchiesta è invece finito il presidente della regione Molise, Francesco Roberti, con l’accusa di corruzione. Certo, il cursus honorum forzista è quello di un partito garantista al 100 per cento. Ma sono storie che non fanno bene alla classe dirigente legata a Tajani.
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