Il fatto che un giorno non esisteremo più, almeno fisicamente, è un pensiero che si tende a rifuggire. Probabilmente il grande successo del thriller è dovuto anche a questo. Un modo per spostare all’esterno uno sgomento interiore: ettolitri di sangue finto per esorcizzare il timore di veder scorrere sangue vero - il nostro. Proprio come certe fiabe perturbanti che si raccontano ai bambini e che consentono loro di dare un volto a delle inquietudini interne, rendendole così meno spaventose.

La cosa certa è che le persone non amano pensare alla morte, e in particolare alla propria. Eppure il numero di italiani che ha firmato per richiedere il referendum sulla legalizzazione dell’eutanasia ha superato il milione.

Da questa risposta, risulta evidente che un alto numero di cittadini è sensibile a questo tema. Vale la pena di chiedersi il motivo di questa forte adesione.

Siamo più vecchi

Sicuramente l’aumento del numero degli anziani, e di conseguenza delle patologie invalidanti legate alla senescenza, così come l’incremento dei tumori e delle malattie degenerative, sono alcune delle ragioni. Chi è stato così fortunato da non avere mai avuto a che fare con un amico o un parente in condizioni di drammatica sofferenza, fisica e morale?

La potenza della medicina e della farmacologia ha portato a una crescita nel numero di pazienti che giungono a fasi molto avanzate - e spesso anche molto dolorose - della malattia. E per molti che si trovano in una condizione del genere può essere di conforto il pensiero di poter evitare le fasi finali e più strazianti.

Come ha ben spiegato in un video Laura Santi, affetta da sclerosi multipla, si tratta di un’uscita di emergenza che forse non si imboccherà mai, ma che sapere possibile può rendere più facile affrontare la malattia di cui si soffre.

Soltanto un diritto

È importante infatti ricordare che la libertà di scegliere l’eutanasia sarebbe un diritto e mai, in nessun caso, un’imposizione: ognuno sarebbe libero di decidere per sé come crede giusto, in base alle proprie idee, alla propria fede e al proprio sentire.

Alcuni ritengono che in caso di vittoria del referendum che intende abolire parzialmente l’articolo 579 del codice penale si arriverebbe a un risultato ambiguo e contraddittorio.

Questo referendum, come ogni altro in Italia, può essere solo abrogativo, ma intende esortare una normativa in merito che ancora manca, nonostante la Corte di Cassazione abbia più volte sollecitato il Parlamento a legiferare in proposito.

La materia è delicata e complessa, e certo non è semplice pensare una legge che disciplini il diritto all’eutanasia. Eppure la difficoltà di stabilire regole, confini e adeguate verifiche non può essere una giustificazione a un’immobilità che suona come un insulto ai tanti che soffrono e, non potendo sperare in una guarigione, chiedono il diritto di poter mettere fine alle proprie sofferenze.

L’accorato appello a favore del referendum sull’eutanasia di Laura Santi si va infatti ad aggiungere a quello di tante persone affette da gravi malattie degenerative o inguaribili. Le testimonianze di persone sofferenti che, come Laura, si esprimono a favore della libertà di scelta sono numerose. Non altrettanto quelle contrarie.

Il motivo è evidente. Se una persona affetta da una patologia incurabile, o che si trova in condizioni di grave e irreversibile disabilità fisica, può legittimamente rivendicare il diritto di decidere per il proprio fine vita, ha meno senso, per chi la pensi diversamente, affermare: io, anche se soffro e non ho alcuna speranza di guarigione, voglio vivere fino all’ultimo istante, e pretendo che tutti coloro che si trovano in una condizione simile alla mia facciano lo stesso.

Obiezioni molto teoriche

Le voci che si levano a contrastare questo referendum sono infatti, per la maggior parte, non di natura concreta e personale, ma teorica. Una di queste, sicuramente la più forte, è quella di certe parti della Chiesa.

In un suo recente intervento monsignor Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, mette in guardia da una concezione “vitalistica” della vita, dove «tutto ciò che non corrisponde a una certa condizione “vitale”, “efficiente”, della salute, non è degno e può essere eliminato». E aggiunge che «già da oggi è possibile morire senza essere torturati dal dolore».

Certo, le cure palliative sono importanti, perché aiutano a tollerare sofferenze altrimenti insopportabili, ma i farmaci che permettono di non essere sopraffatti dal dolore finiscono per ottundere, e molti preferiscono essere lucidi nel momento del distacco dai propri cari, anziché andarsene in uno stato di parziale o totale incoscienza.

Scrive ancora monsignor Paglia: «Una lode meritano coloro – sono molti e non fanno notizia – che stanno accanto a tanti malati terminali o in gravi condizioni, senza abbandonarli, sentendo degna anche quella vita».

Come non essere d’accordo? È auspicabile che accanto a ogni persona sofferente ci sia qualcuno che gli dà vicinanza e conforto.

Però non vedo alcuna contraddizione tra il prendersi cura di un malato terminale e il lasciarlo libero di scegliere l’eutanasia. Accompagnare una persona cara nel periodo finale della sua vita può significare dargli sostegno e vicinanza, così come aiutarlo nell’andarsene, quando ritiene che sia arrivato il momento di farlo.


Giampiero Rigosi è l’autore di Ciao vita, da poco uscito per La Nave di Teseo

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