«La legge Zan ha preso ai miei occhi una dimensione abnorme, drammatica, paradossale e con punte notevoli anche di ridicolo. Non sono pro Zan, non sono neanche contro per principio. Cambierei qualcosa. Sono più che altro scettica. Una legge non riesce a produrre cambiamenti. La legge Zan non salverà i gay o i trans dalla discriminazione, dalla derisione, dalla violenza. Lo può dire con certezza una donna. Noi donne da secoli vere esperte di ingiustizia di genere, oggi siamo piene di diritti eppure la storia continua». Parla Alessandra Bocchetti, romana, (bellissima), pioniera dei collettivi femministi degli anni 70, fra le fondatrici dell’ormai mitologico centro culturale Virginia Woolf, luogo di amori e conflitti, di rotture e paci esplosive fra attiviste e filosofe del pensiero della differenza. Bocchetti, vicina a Se non ora quando – Libere (nato a sua volta da una separazione da Snoq), accetta di parlare di un tema sensibile, e abbastanza impronunciabile: la rottura che si consuma fra femminismi dietro il velo della discussione sulla legge contro l’omotransfobia in discussione – e in bilico – al senato. Al di là e a prescindere dallo «scontro di civiltà» – la definizione, scherzosa ma non troppo, è di Fulvia Bandoli, femminista, ecologista e fra le animatrici del Gruppo femminista del Mercoledi – fra democratici di diverse osservanze e amici di Orbán e Lepen, che inventano improbabili «teorie gender». Lo scontro interno al femminismo ha esiti paradossali, anche in questo caso «con punte notevoli di ridicolo», per citare Bocchetti: al senato si incontrano omaccioni leghisti che ripetono a pappagallo frasi femministe tratte dalle audizioni in commissione di Marina Terragni e Francesca Izzo (feroci oppositrici alla legge Zan). Senatori che fino a un mese fa sostenevano che non c’è bisogno di nessuna legge contro l’omofobia, ora sostengono di agire per conto di Arcilesbica. Dall’altro lato ci sono invece giovani donne e uomini che accusano di transfobia le femministe del no alla Zan, quelle che vogliono cancellare «identità di genere» dalla legge. Bocchetti non se ne preoccupa: «I gay pride con i loro carnevalsessuali, porno sadomaso, hanno smesso da parecchio, ai miei occhi, di significare libertà», risponde, forse provoca, «Zan a piazza del Popolo si è presentato con due trans a mo’ di sorelle Kessler», si riferisce al duo di Drag Queen che ha presentato il Roma Pride, le Karma B, «Mi chiedo cosa ho in comune con chi per essere donna ne assume gli stereotipi più retrivi. Per essere donna non basta “sentirsi” donna. Bisogna assumerne la storia, non solo rossetti e tacchi a spillo. Il femminismo è stato il più grande processo di destrutturazione critica mai prodotto nella storia del pensiero. E adesso arriva Zan con le sorelle Kessler? Ma le donne non si sentono offese?».

La sottile linea viola

«Il femminismo è sempre stato un movimento a più voci e nel corso di quasi mezzo secolo ha conosciuto più volte discordanze, conflitti e divisioni», secondo Lea Melandri, femminista, giornalista, presidente della Libera Università delle Donne, pro Zan. «Particolarmente profonda e duratura è stata quella riguardante il "pensiero della differenza", nella elaborazione che ne fece nei primi anni 80 la Libreria delle donne di Milano. Guardando all’indietro, direi che la frattura che oggi si è aperta tra gruppi e associazioni femminili, femministi e lesbici sulla questione della “identità di genere”, così come compare nell’art.1 del ddl Zan, va a collocarsi lungo una linea di divaricazione iniziata sul rapporto tra sesso e genere, biologia e storia». L’ipotesi è che questa divaricazione si sia aperta nel 2004 con la legge 40, che regolava (in realtà il contrario, rendeva impraticabile) la procreazione medicalmente assistita, legge poi smontata da una valanga di ricorsi; e poi sia proseguita sul tema della gravidanza per altri («l’utero in affitto» secondo una definizione politicamente orientata). «Anche se i cambiamenti prodotti dalla legge 40, le nuove forme di intimità rese possibili dalle biotecnologie, e la Gpa, non compaiono nella Zan, un legame c’è e forse oggi è il momento di discuterne a fondo», ammette Melandri, «La preoccupazione di salvaguardare un’identità della donna, una autenticità del femminile, ha sempre mantenuto per una parte del femminismo il legame con il materno: corpo che genera o madre simbolica. I gruppi femministi e lesbici che si oppongono oggi al riconoscimento per legge dell’“identità di genere” dicono di farlo per salvaguardare la specificità del femminile: è donna solo quella che può generare. Non esiste una femminilità come vissuto soggettivo in corpo biologicamente maschile. Si parla di "cancellazione del corpo", del corpo della donna in particolare. Ancora una volta si fa riferimento alla biologia in modo deterministico, anziché cercare “nessi” che già ci sono tra corpo e pensiero, natura e cultura».

Ricominciamo dall’inizio con altre interlocutrici. È in corso un congresso del femminismo, fra femminismi, che si sfidano, si pesano, o forse misurano la propria contemporaneità? No, secondo Bandoli: «Non un congresso, tipico dei partiti non dei movimenti. No, il femminismo in Italia e nel mondo è da sempre caratterizzato da una pluralità di gruppi, collettivi, pratiche politiche diverse. E su vari temi sono emerse spesso posizioni contrastanti. Noto semmai che negli ultimi anni confliggiamo come in passato, ma alcune con toni più duri ed escludenti, mentre tutte evitiamo accuratamente momenti di confronto reali e significativi». Non è un congresso neanche per Letizia Paolozzi, giornalista, scrittrice e e fra le animatrici del sito Dea, Donne e Altri: «Il femminismo ha avuto sempre una grande varietà di conflitti, contrasti e disaccordi al proprio interno. Basta pensare alla discussione tra chi sostiene la parità e chi la differenza. Questi conflitti generano la vitalità del femminismo. Che tuttavia appassisce quando si lega mani e piedi alla legge». Il movimento è «ampio e plurale» anche secondo Laura Onofri, fra le fondatrici e presidente del movimento Se non ora quando di Torino, pro Zan, «Ma intorno al ddl Zan si certifica una frattura netta e ideologica». «Assistere a situazioni in cui femministe usano lo stesso linguaggio e portano avanti le stesse tesi dei vari Salvini e Pillon di turno, non è facile da digerire», ammette Marilena Grassadonia, ingegnera, già presidente delle Famiglie Arcobaleno e responsabile diritti per Sinistra italiana, pro Zan.

In principio fu la legge 40

«Le differenze sono sempre esistite», spiega Bandoli, «sulla legge 40 confliggemmo sulla possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa, che alla fine fu esclusa. Ma nel 2014 fu introdotta, dopo che la Corte ne sancì l’incostituzionalità. Un po’ come capiterebbe, secondo me, se dalla legge Zan fossero esclusi una parte di cittadini, come chiede chi vuole togliere il riferimento all’identità di genere. Diventerebbe una legge contro le discriminazioni che discrimina a sua volta». Legge 40, Gpa e Zan sono storie diverse, secondo Paolozzi, «e vanno affrontate senza generalizzazioni». Sulla legge Paolozzi ha altre obiezioni: «È scritta male, imprecisa, sbagliata in alcuni punti, pericolosa in altri (quelli che riguardano la libertà di opinione). D’altra parte qual è il confine tra una frase che istiga all’odio e una che manifesta un convincimento personale, per quanto aberrante?». Ma poi arriva al punto: «E poi, una legge penale non dovrebbe prendere partito nelle discussioni su cos’è genere e cos’è sesso». In effetti per Onofri «alla base c’è una diversa idea della donna che per alcune femministe purtroppo è ancora molto collegata alla maternità. Il riconoscimento di altre differenze non costituisce una minaccia per le donne. Serve una legge contro i crimini d’odio e di contrasto alle discriminazioni e alla violenza. Il ddl Zan parla di questo e di niente altro». «È un nastro che si riavvolge all’indietro», secondo Grassadonia, «parte del femminismo, che ha lottato per l’autodeterminazione, puntando alla decostruzione di stereotipi sociali e di genere, capita di trovarla a difendere posizioni in cui la biologia è l’aspetto attorno a cui ruota tutto. Accade quindi ad esempio che il legame biologico e la gravidanza vengano visti come elementi legati indissolubilmente all’essere genitori. In questi anni abbiamo conquistato una consapevolezza preziosa come famiglie arcobaleno: essere genitore è amore, consapevolezza e soprattutto responsabilità, che è una cosa seria e che va ben al di là dell’eventuale legame biologico».

«Io non accuso né “scomunico” altre femministe», avverte Bandoli, «ma non credo che l’identità femminile si fondi solo sul sesso biologico. E mi pare che non riconoscere la presenza di identità di genere significhi escludere da diritti primari una parte di persone. Non credo infine che riconoscerle metta in discussione il pensiero e la pratica della differenza, fondamentali anche per me. Mi piacerebbe confliggere senza farci male». Paolozzi: «Anche il proprio sentire offre una lettura della realtà. D’altronde, oggi le identità non binarie hanno una importanza maggiore del passato. In questa discussione, spesso dimentichiamo quanto l’oggetto d’amore (che nella vita difficilmente rimane lo stesso) incide sulla mia, sulla nostra identità. Non vorrei però che si tornasse a antiche distinzioni tra mente e corpo, accentuando l’idea che essere donne, uomini, o qualcosa d’altro, sia solo frutto di una costruzione culturale, e non di qualcosa che è molto più complesso. Ancora una volta: può davvero guidarci in questa ricerca una norma volta a punire le persone violente?». Secondo Onofri «tutto parte dal timore di alcune femministe che l’identità di genere possa annullare il dato biologico e portare ad un appiattimento delle differenza tra i sessi, finendo in qualche modo per pregiudicare alcuni diritti civili conquistati dalle donne. Ma così non è. I diritti delle donne sono stati ottenuti non solo in base al sesso, ma anche e soprattutto in base al genere, solo che nelle battaglie del Novecento il concetto di genere era in via di elaborazione. La proposta di legge Zan vuole dare pari dignità e tutela a tutte le discriminazioni e le violenze subite sulla base di sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità a quelle che avvengono su base razziale, etnica o religiosa. Mette tutte queste differenze sullo stesso piano, riconoscendo loro pari dignità e protezione. Cosa toglie alle donne tutto questo?». Qui Grassadonia tocca corde delicate: «A volte sembra di assistere a una gara a chi è più discriminata. C’è un femminismo che si sente quasi minacciato dalle donne trans, come se queste potessero togliere alle donne “cis”» ovvero quelle la cui identità di genere corrisponde al sesso biologico, «visibilità e diritti. Io da donna, lesbica, femminista non mi sento affatto minacciata dalle donne trans, piuttosto desidero con loro portare avanti una battaglia per fare in modo che gender gap e misoginia siano ricordi lontani».

Uomini o influencer

E poi c’è la rete. La legge Zan, grazie soprattutto agli influencer Fedez e Ferragnez, e alle campagne virali, ha conquistato la simpatia di masse di giovanissimi follower. Un fatto positivo oppure una rivoluzione passiva? «Non credo che persone con grosso seguito nei social possano sostituirsi alla politica», spiega Bandoli, «ma non nego l’importanza della rete nel determinare un avanzamento graduale (o a volte anche arretramenti) della sensibilità di molte persone su questioni rilevanti. Se la politica rinuncia ad alzare il livello del dibattito accadrà sempre più spesso». Più indulgente Paolozzi: «Mi pare un fatto positivo benché lo spirito del tempo (e il ruolo che hanno i vari “influencer”) tenda alla semplificazione». Per Onofri gli influencer c’entrano poco: «Piuttosto c’è una consapevolezza maggiore di quanto sia urgente approvare una legge che contrasti la misoginia, il sessismo e l’omotransfobia, una vera emergenza nel nostro Paese. I giovani e le giovani hanno fortunatamente superato certi steccati. Non è una rivoluzione passiva, basta andare nelle piazze allestite per sostenere il ddl Zan per accorgersene». Anzi è una rivoluzione «più che attiva» per Grassadonia, «nasce dalle piazze e dalla consapevolezza che si fa strada tra le giovani generazioni. Gli e le influencer sono parte di quel mondo giovanile. Le piazze dei Pride ci consegnano la partecipazione di tant* student* che vogliono essere protagonist* del proprio futuro». Era fatale che arrivassero agli asterischi per evitare il maschile finto universale. Quello degli influencer è «un fenomeno ambivalente» secondo Carlotta Cossutta, filosofa, del centro di ricerca Politesse, collettivo femminista e queer Ambrosia e attivista di Nessuna di meno (e nipote di Armando, partigiano e dirigente comunista scomparso nel 2015), «Da un lato, la modalità di comunicazione delle/degli “influencer” e di alcune attiviste social sposta la lotta politica nel campo dell’opinione. Questo rischia di nascondere la dimensione collettiva e conflittuale della politica. Allo stesso tempo, però, può offrire un’idea di sostegno a chi si trova da sola/o, magari fuori da contesti politici e collettivi. E può essere un primo incontro con alcuni temi».

Le rottamatrici

Infine un dubbio molesto: c’è una anche questione generazionale che attraversa le opinioni sulla legge Zan? «Penso ci sia», ammette Bandoli, «vedo che le generazioni più giovani affrontano “laicamente” temi che le generazioni come la mia o quelle precedenti hanno faticato a riconoscere. Anche se la realtà ce le mostrava». Forse sì anche per Onofri: «Questo disegno di legge è stato appoggiato da tante femministe che hanno fatto la storia del movimento delle donne nel nostro Paese, come Lea Melandri, Bianca Pomeranzi, Maria Luisa Boccia. Sicuramente c’è una questione generazionale perché tutto il femminismo delle nuove generazioni è convintamente schierato a favore del ddl. Fortunatamente, vuol dire che anni di confronti contro le discriminazioni non sono stati inutili». «Le generazioni passate sono cresciute con la narrazione che le persone lgbt+ dovessero “adeguarsi” al sentire comune per essere “accettate”», secondo Grassadonia, «Insomma i diritti come premio per essere brave persone meglio se garbate e riservate. Oggi la comunità pretende quegli stessi diritti senza chiedere a bassa voce il permesso». L’anagrafe conta qualcosa per la più giovane, Carlotta Cossutta: «Mi pare che le generazioni più giovani – a cui da un lato il femminismo è presentato come inutile perché molte conquiste sono già avvenute, dall’altro hanno di fronte un movimento transnazionale come Ni una menos, ma anche un uso “capitalista” e quasi da marketing del femminismo stesso – abbiano un legame meno forte con la storia del femminismo e più stretto con le istanze LGBTQIA+ (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, intersex e asessuali, il segno “+” rappresenta le altre identità, ndr), che vengono lette come parte della stessa lotta. Questo produce una forte alleanza in sostengo al ddl Zan visto come uno degli strumenti per contrastare le violenze che continuano ad essere strutturali».

Ed è quello che pensa anche Lea Melandri. Meno colpita dalle simpatie della rete, quanto «del consenso ampiamente ragionato della rete Non una di meno, la generazione più impegnata nelle battaglie del femminismo a livello internazionale. L’apertura alle soggettività Lgbtq+ è entrata con loro nel movimento delle donne, non come svolta, ma come approfondimento e continuità delle intuizioni più radicali del femminismo degli anni 70: critica alla “naturalizzazione” delle identità di genere, contrasto alla misoginia e alla violenza contro le donne viste come fondamento di tutte le forme di dominio e di sfruttamento che la storia ha conosciuto: razzismo, classismo, colonialismo, omolesbotransfobia»

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