All’inizio è stata la festa dell’Unità, la cui prima edizione risale addirittura al 1945 e venne organizzata dal Partito comunista riprendendo la festa di Parigi dell’Humanité, che era l’organo del partito comunista francese. Da allora le feste di partito hanno contagiato tutto l’arco costituzionale: nel 1975, Benigno Zaccagnini rilanciò l’immagine della Democrazia cristiana come partito popolare organizzando la prima festa dell’Amicizia, il Partito socialista aveva la festa dell’Avanti e anche il Movimento sociale organizzava a livello locale le feste del Secolo d’Italia. Il senso di queste iniziative, che fungevano da primo evento politico dopo la pausa estiva, era duplice: raccogliere fondi e creare comunità politica.

La tradizione, che si è tramandata anche agli eredi dei partiti della prima repubblica, è stata raccolta anche dalla Lega, che ne ha immediatamente colto la portata unificatrice e ha inventato il pratone di Pontida come culla del nordismo. Negli anni, le feste di partito sono diventate anche un evento mediatico per i singoli leader, dove lanciare le candidature in vista delle tornate elettorali e dove le correnti si confrontano in modo sotterraneo. Almeno fino a oggi, in cui rischiano di essere un pericolo più che uno strumento.

Fratelli d’Italia

La festa che ha mantenuto i maggiori tratti nostalgici è Atreju, del partito di Giorgia Meloni. Nato nel 1998, tre anni dopo la svolta di Fiuggi che chiuse l’esperienza dell’Msi e la fondazione di Alleanza Nazionale da parte di Ganfranco Fini, all’origine si tratta di un evento destinato soprattutto ai giovani. Il nome è ispirato al personaggio del romanzo La storia infinita – un giovane guerriero che combatte contro il Nulla creato da Michael Ende - e richiama la mitologia nordica molto cara all’immaginario della destra. E’ a questi eventi che i giovani ex missini si incontrano, si salutano col saluto romano e ascoltano musica della cosiddetta estrema destra alternativa come i 270bis e i Figli del vento. E’ una sede di confronto tra correnti interne, dove i gruppi si presentano con magliette e simboli differenti in una sorta di competizione e rivalità tra Destra sociale, Destra protagonista e i Gabbiani. Nei primi anni Duemila, è anche il luogo da cui muove i primi passi la stessa Meloni, che da presidente di Azione giovani (le giovanili di An) coordinava la festa e ha continuato a farlo anche da leader di Fratelli d’Italia. Il profilo di Meloni e di quelli della cosiddetta “generazione Atreju” cresce insieme alla festa, che lei fa evolvere insieme al suo percorso politico. Fino a trasformarla, da un luogo di incontro per le giovani leve di partito, a sede di confronto con i segretari degli altri partiti anche di centrosinstra e di incontro con leader stranieri come Victor Orban e Marine Le Pen. «Giorgia aveva l’imperativo di perdere i connotati della politica di borgata. Voleva essere leader nazionale e si è attrezzata, quindi la manifestazione è diventata uno specchio delle sue ambizioni. Ma per farlo si è fatta guidare da esponenti molto più esperti di lei», spiega un attivista romano.

Gli stessi che oggi hanno deciso insieme a lei di bloccare Atreju per il secondo anno di fila. Ufficialmente, la motivazione data da Meloni è che a impedirla è la campagna elettorale per le elezioni amministrative del 3-4 ottobre: «Atreju è sempre stato il luogo di confronto tra idee politiche e opinioni diverse» e farlo a ridosso del voto «ne snaturerebbe la particolarità e ostacolerebbe la partecipazione a tutte le realtà territoriali impegnate nelle competizioni elettorali». La scelta sembrerebbe illogica: la festa si svolge storicamente a Roma, dove si vota per le amministrative e Enrico Michetti è il candidato d’area. Offrirgli un palco dovrebbe essere una spinta e non un ostacolo. Invece, d’accordo con tutti i candidati, la logica applicata è stata inversa: Atreju sarebbe controproducente, anzi un danno all’immagine sempre più in ascesa di Fdi e anche ai già sfilacciati equilibri di coalizione. «Atreju serve soprattutto a far incontrare i militanti, che sono voti sicuri: meglio utilizzare le energie altrove», dice un dirigente locale del partito. Non solo, però, a fare paura è anche il tratto folkloristico della manifestazione. «E’ un evento molto caratterizzato, che in campagna elettorale creerebbe solo difficoltà nel quadro del centrodestra», aggiunge. Le difficoltà sarebbero prima di tutto per la tenuta della coalizione: «Michetti andrebbe fatto parlare per forza, ma un contesto del genere darebbe problemi alla candidata vicesindaca di Forza Italia, Simonetta Matone, e soprattutto produrrebbe una competizione sbagliata dentro il centrodestra: i candidati degli altri partiti non verrebbero e così via». Tradotto: prima delle urne è meglio tenere un profilo basso, lasciar parlare Meloni che sta capitalizzando al massimo la sua posizione all’opposizione e spegnere il microfono a Michetti, che ha inanellato già più di qualche gaffe. Poi, dopo il 4 ottobre, ci sarà tempo per fare eventi di piazza.

Lega

La decisione della Lega di rinunciare non solo a Pontida ma anche alla Berghem Fest ha ragioni di fondo molto differenti rispetto a quelle di FdI. La motivazione di facciata è il rischio Covid di decimila persone ammassate su un prato in tempi di pandemia. Le ragioni politiche invece sono più profonde e hanno indirettamente a che fare con la perdita della parola “nord” nel nome del partito.

Tanto quanto Atreju si è evoluta con Meloni, altrettanto si sono involute le feste leghiste con Matteo Salvini. A spiegarlo bastano le foto di Salvini in un tour a tappe serrate in Calabria, quando dal palco di Pontida lo striscione tipico era “Prima il nord”. La transizione della Lega da partito secessionista di Umberto Bossi a partito nazionale di Matteo Salvini, infatti, non è stata indolore: si è aperta una frattura sotterranea tra i nordisti e il loro leader, non lenita nemmeno dai successi elettorali. La base delle regioni del nord non ha mai veramente assimilato la sostituzione del federalismo con il sovranismo, anzi lo considera un tradimento delle istanze originarie e oggi guarda con sospetto all’ipotesi di fusione con Forza Italia, che sancirebbe la definitiva perdita di ogni connotato regionale. Facile, dunque, immaginare perchè Salvini preferisca un tour agostano tra Palmi e Tropea piuttosto che il rischio di una tiepida accoglienza nel pratone di casa propria. Del resto, le feste di partito servono a scaldare la base e a galvanizzare i leader: se questo non succede, meglio evitare i boomerang.

Partito democratico

A resistere, nonostante tutto, è proprio la festa capostipite: quella dell’Unità, che con la nascita del Pd si era provato senza successo a ribattezzare festa democratica. Il rito (che è quasi subito tornato al nome originario nonostante, nel frattempo, la chiusura del giornale) si è trascinato stancamente negli anni della segreteria Renzi ma ha continuato a venire celebrato con feste locali in molte città e una festa nazionale a inizio settembre. Oggi il progetto del Pd di Enrico Letta passa anche per la festa, come collante per riavvicinare al partito tutti i pezzi di sinistra persi per strada in questi quasi quindici anni. Non a caso quest’anno il ragionamento del Pd è inverso a quello di Meloni: la festa si svolgerà nella rossa Bologna dove si vota alle comunali e avrà un dispiegamento di forze che non si vedeva da tempo: 10 dibattiti, 5mila i volontari, 500 ospiti e 30 presentazioni di libri. Gli inviti sono stati estesi a tutta la «sinistra fuori dal Pd»: ci sarà l’ex segretario Pier Luigi Bersani, l’ex presidente del Pd Rosy Bindi discuterà di sanità con il ministro Roberto Speranza e tornerà anche Ugo Sposetti, l’ex tesoriere dei Ds e presidente dell’associazione Berlinguer. Il motto che ripete il segretario è «basta lacerazioni», e per realizzarlo ha scelto di tornare ai fondamentali della vita politica: la forza dell’aggregazione, facendo leva anche sull’operazione nostalgia. Con l’obiettivo di riallacciare il legame non solo con la base, ma con tutti i mondi (e l’elettorato) contigui e fuori dal partito.

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