Nel valutare la candidatura alle comunali di Bologna con il Pd del loro portavoce Mattia Santori, l’errore di fondo è «considerare le Sardine un movimento», dice Paolo Flores d’Arcais. Tra i protagonisti del Sessantotto, scrittore, fondatore e direttore della rivista Micromega, Flores D’Arcais riflette sull’assenza dei movimenti nel panorama politico attuale, in cui prevale invece la partitocrazia.

La candidatura di Santori con il Pd l’ha stupita?

Tutt’altro, mi sembra una candidatura ovvia. Insignificante però sul piano politico e utile a influenzare solo la vita personale di Santori stesso.

Solo qualche mese fa, Santori aveva definito il Pd un partito tossico.

Purtroppo la coerenza nelle posizioni sembra non essere più una caratteristica della politica italiana.

Il movimento delle Sardine entra definitivamente nella politica dei partiti?

Il movimento delle Sardine non esiste. Quello che lei chiama movimento sono state due manifestazioni: quella di Bologna, il cui successo inaspettato ha lanciato il cosiddetto movimento, e quella di Roma, che ha effettivamente avuto una partecipazione oltre le aspettative. Poi qualcosa si è mosso in Calabria, ma nulla più di questo: le Sardine non sono mai diventate un movimento.

Eppure, la piazza di Bologna è stata determinante per la vittoria di Stefano Bonaccini alle regionali.

Questo non vuol dire essere un movimento, vuol dire fare i portatori d’acqua. Le Sardine sono totalmente dentro la logica del partito e Santori al massimo può essere una fronda interna, ma in loro non riesco a vedere nemmeno un lontano odore di eresia.

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L’idea di fondo delle Sardine era quella di mutare, dall’esterno, l’agenda politica del Pd. Risultato fallito, quindi.

Io dalle Sardine ho sentito qualche dichiarazione e qualche iniziativa ogni tanto, spesso banali e in un paio di casi particolarmente stupide, come nel caso della foto di Oliviero Toscani insieme a Luciano Benetton. Ma è l’idea di fondo ad essere sbagliata. Il Pd non è assolutamente modificabile ed è quel che è: un pezzo della partitocrazia italiana, che un tempo si sarebbe definito di centro o di centrodestra.

Se non le Sardine, vede qualche movimento che potrebbe riportare verso sinistra l’asse della politica?

Movimenti in senso politico no, purtroppo. Vedo persone che vogliono impegnarsi per i valori dell’uguaglianza e della libertà, ma sono disperse: c’è chi cerca di trovare una strada personale di impegno, c’è chi al momento è disilluso.

Queste amministrative saranno lo spartiacque di qualcosa, a livello politico?

Io guardo con disperazione non tanto alle amministrative, quanto alle politiche che si terranno tra un anno e mezzo. L’unica cosa che rimane da capire è se avremo una maggioranza Salvini-Meloni o Meloni-Salvini. Tradotto: un governo Orban-Le Pen, una tragedia assoluta per l’Italia.

Lei vede certa la vittoria della destra?

Sì. E si tratta non di una minaccia, ma di un colpo micidiale contro la democrazia. E noi, con questo pericolo imminente, ci stiamo a preoccupare di qualche percentuale alle amministrative?

Eppure, solo un anno fa la vittoria di Bonaccini in Emilia anche con l’appoggio delle Sardine era stata vissuta come la sconfitta di Salvini e l’argine di sinistra all’avanzata della destra leghista.

Ma quale argine, ma quale sconfitta? Lei crede che sulla base di quel risultato in Emilia Romagna Salvini abbia perso anche solo lo 0,1 per cento nei sondaggi? Ma di che parliamo. Ma soprattutto, a quale sinistra si riferisce?

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Bonaccini e il Pd non sono di sinistra?

Lei parla di sinistra, ma guardiamo alla politica che sta facendo questo Bonaccini. Non vedo grandi impegni per l’uguaglianza e un partito di sinistra, anche moderatissimo, si qualifica perché ha come sua stella polare l’obiettivo di garantire più uguaglianza ogni giorno. Quello che oggi si chiama centrosinistra è qualcosa che non è: è solo un pezzo della partitocrazia, sempre più indistinguibile da tutto il resto e senza capacità di mobilitare alcun che.

Quale rischio vede, per il futuro?

Innanzitutto l’elezione del presidente della Repubblica. L’idea di un altro mandato di Sergio Mattarella è una follia, perché non durerebbe un settennato. Il risultato sarebbe che, tra tre o quattro anni, il nuovo capo dello Stato verrebbe eletto dal parlamento Salvini-Meloni e sarebbe la fine della vita costituzionale come la abbiamo conosciuta fino a oggi.

Dunque cosa bisognerebbe fare?

Visto che l’esito delle prossime elezioni politiche è già scritto, questo parlamento ha l’imperativo di eleggere il nuovo presidente, scegliendo una persona che abbia lo spessore morale e culturale per fare da contrappeso nei prossimi anni all’orrore di una maggioranza Orbàn e Le Pen. E’ il minimo che si possa fare, per opporre un minimo di resistenza alla tragedia che verrà.

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