Professore Massimo Luciani, docente di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, siamo nel pieno di una crisi di governo non formalmente aperta, o non ancora aperta?

Faccio una premessa, anche solo dal punto di vista politico-istituzionale. Una crisi di governo è l’ultima cosa di cui oggi il paese ha bisogno. Il presidente Mattarella lo ha detto a lettere molto chiare; è il momento dei costruttori, di coloro che sanno lanciare ponti per superare il torrente della pandemia. Ci sarebbe bisogno di solidarietà nazionale, di comunità di intenti. L’apertura di una crisi lascia sbalorditi. Sarebbe il segno ultimo dello sfaldamento del nostro sistema politico-istituzionale. E chi aprisse la crisi si caricherebbe di una responsabilità storica come poche se ne sono viste.

Secondo Carta e prassi, fino a quanti ministri possono cambiare senza passare per le dimissioni del presidente del Consiglio?

Non c’è una soglia numerica del cambio dei ministri che indichi il passaggio da un rimpasto a una crisi di governo. Non c’è una norma costituzionale puntuale che indichi il punto di frontiera. Si tratta di un apprezzamento politico-istituzionale i cui protagonisti sono il presidente della repubblica e quello del consiglio. Eppure, se il rimpasto non fosse solo la sostituzione di qualche nome ai dicasteri ma qualcosa di diverso, come un cambio di formula politica o uno stravolgimento del programma di governo, si dovrebbe necessariamente parlare di crisi di governo. La discrezionalità è ampia, ma la Costituzione, pur senza una norma puntuale, dà paradigmi decisamente indicativi.

Le dimissioni sono obbligatorie solo in caso di cambio di maggioranza?

Non necessariamente. L’identità di un governo si fonda su molteplici elementi. Uno è la composizione, le persone. Poi c’è la formula politica data dalle forze che sostengono l’esecutivo. E infine c’è il programma di governo. Ora è chiaro che un mutamento della persona del presidente o di tanti ministri determina un cambiamento di governo, ma anche un mutamento significativo nella formula politica, o nel programma, dovrebbe anch’esso comportare un passaggio attraverso la crisi, la sua parlamentarizzazione.

Si può indicare un limite?

Non aritmetico. Ma se con il cambio di un paio di ministri siamo nell’ambito del rimpasto, non lo siamo quando se ne cambiano molti e ci sono tutte le ragioni per ritenere di dubbia costituzionalità la scelta di non aprire la crisi.

C’è il rischio che il parlamento resti solo spettatore?

Il rischio c’è, particolarmente in questo momento in cui il parlamento lavora con difficoltà per ragioni note a tutti. Ma le strade per un coinvolgimento parlamentare ci sono. Una prima è l’apertura formale della crisi. Ma, anche se non si aprisse, il presidente della Repubblica potrebbe chiedere un passaggio parlamentare nel quale il presidente del Consiglio dia conto alle camere delle ragioni che lo hanno indotto a operare un cambiamento.

Diceva del parlamento che «lavora con difficoltà». Monocameralismo di fatto, sistematico uso di Dpcm o decreti. Il senatore Pd Luigi Zanda in aula ha parlato di «riforme adottate per via di prassi» che possono «costituire precedente». Un precedente pericoloso?

Condivido la preoccupazione. Ma mi lasci dire: da tempo lamentiamo l’emarginazione del parlamento, da tempo siamo consapevoli del fatto che l’esecutivo è diventato un comitato direttivo, conseguenza di antichi meccanismi istituzionali e di più recenti contingenze storico-politiche come i fenomeni di sovranazionalizzazione o l’ideologia della decisione necessariamente rapida. Però i parlamenti hanno tutti gli strumenti per opporsi a questa marginalizzazione. La loro debolezza è dovuta a fattori oggettivi, certo, ma purtroppo ormai è dovuta anche a fattori soggettivi. Un parlamento composto di una classe politica di alta qualità i soprusi non li tollera. Purtroppo, ora, se ci sono ancora parlamentari di grande spessore, la qualità complessiva è assai calata.

Si riferisce per esempio ai Cinque stelle, che all’inizio teorizzavano la fine del parlamento?

Non si tratta solo di questo, queste convinzioni non hanno attecchito perché chi le sosteneva è poi stato catturato dal parlamentarismo, e per fortuna. Il problema è di forza politica, cioè della capacità del parlamento di rivendicare la garanzia delle proprie attribuzioni.

A proposito dei poteri dell’esecutivo, Conte ha rivendicato per sé la delega dei servizi segreti, sfidando chi “non si fida di lui”. Ragionamento corretto?

Il presidente Conte ha ragione quando dice che la legge non impone la delega. È però un fatto che questa delega è stata conferita in passato. Si tratta di una prassi consolidata e per questo sarebbe necessario spiegare perché oggi non sia conferita. La questione si può risolvere semplicemente con un passaggio chiarificatore in parlamento. Non c’è alcuna ragione per diffidare del presidente, ma è una questione di trasparenza e di chiarezza dei rapporti fra parlamento e governo.

Diceva che una crisi sarebbe segno dello sfaldamento del sistema politico. Chi vuole la crisi?

Lo si saprà a posteriori, perché la crisi può essere scatenata da qualcuno ma desiderata da altri che non si manifestano. Tuttavia ho l’impressione che coloro i quali ritengono di trarne giovamento non abbiano fatto bene i conti. C’è da essere molto miopi a pensare di lucrarne, di questi tempi, un vantaggio politico.

Mattarella ha avuto predecessori ben più interventisti. Come sta esercitando il suo ruolo?

In modo impeccabile: il capo dello stato, in una situazione di grande difficoltà, sta esercitando le sue prerogative con estrema discrezione ma anche decisione. Questo renderà la successione particolarmente difficile. E gli anni prossimi non saranno più semplici, specie perché quello italiano è un panorama di macerie politiche. Quando Mattarella dice che servono costruttori non si riferisce solo alla pandemia, temo, ma anche a un sistema politico disastrato.

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