«Non mi dimetterò mai»: da Santanché al Garante la poltrona non si molla

Fine incarico, mai. Il Garante per la Privacy non si dimette, spiega il presidente Pasquale Stanzione al Tg1 della sera. «Noi agiamo in piena autonomia anche quando prendiamo una decisione scomoda. Le accuse sollevate sono infondate, infatti non vi è mai stata una decisione del Garante assunta per ragioni diverse dall'applicazione della legge, in piena indipendenza di giudizio». Secondo Stanzione «la narrazione del Garante come subalterno alla maggioranza di governo è una mistificazione che mira a delegittimarne l’azione». Nessuna menzione di Agostino Ghiglia, neanche nel servizio di ricostruzione che segue l’intervista. Alla faccia del Garante della Privacy «sfiduciato nei fatti dal parlamento», come amano ripetere dalle parti del centrosinistra. Però, dimettersi dopo una richiesta dei partiti, è il ragionamento dei componenti del collegio, sarebbe una conferma dell’influenza della politica sull’organismo. E, ovviamente, proprio per tutelare l’indipendenza di cui sopra, gli eletti sono indimissionabili da fuori. Il più aperto a questa possibilità continua a essere il membro attribuito all’area M5s, Guido Scorza, che nel pomeriggio ha detto a La7 che lascia «sul tavolo anche l’opzione delle dimissioni». Ma «non perché lo chiede la politica, ma per mia coscienza, valutando eventuali responsabilità». In attesa di un intervento coscienzioso, la politica muove all’authority l’accusa di cui lei stessa potrebbe essere colpevole. Che però, ironia della sorte, si schianta sullo scudo che la legge stessa prevede per il collegio. Servono a poco le polemiche sull’impossibilità di rimuovere i membri: «È assurdo che in Italia si possa chiedere l'impeachment del capo dello Stato e non si possano revocare i garanti per la privacy» dice Sandro Ruotolo, responsabile cultura del Pd, mentre il senatore dem Dario Parrini chiede di introdurre un quorum per l’elezione del prossimo Garante e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si offre addirittura, bontà sua, di riscrivere la legge che ne norma l’elezione. A rimettere ordine interviene Roberto Zaccaria, giurista ed ex presidente Rai, che ritiene «impensabile» una legge che sciolga l’authority. Caso Report, cosa è successo e come funziona il Garante per la privacy. La politica può azzerarlo? Questione di credibilità L’organismo è inscalfibile. Nonostante articoli che li hanno definitivamente classificati come ricettacoli di “trombati” ed ex, le authority e le persone che le compongono continuano dritte per la loro strada. Come lo fa il Consiglio d’amministrazione Rai, ancora privo di una presidente legittimata dalla commissione di Vigilanza, o la Vigilanza stessa, bloccata da oltre un anno dal ricatto del centrodestra. Polemiche, lettere e appelli, ma nessuno alla fine ha rimesso il proprio mandato. Come non l’hanno fatto i dirigenti responsabili di fallimenti misurabili con lo share, che spesso beneficiano del fatto che la maggioranza non abbia alternative da mettere in campo. In azienda tanti scuotono la testa, volano accuse d’incompetenza, scalette copiate e tanto altro, ma alla fine tutto rimane com’è. Non che in casa Rai si tratti di casi figli solo di questa stagione: pur di non dimettersi, Antonio Baldassarre a inizio anni Duemila guidava un cda che «entrava in una smart» perché dopo una serie di addii era rimasto composto solo da due persone, mentre nel 2018 Marcello Foa – quasi truffato da un finto Giovanni Tria e contestato con continuità da una grossa fetta della commissione Vigilanza – ha completato il suo mandato sì senza legittimazione, ma altrettanto senza problemi. Ma, d’altra parte, chi è che dà il buon esempio? Certo non la politica. Dove, al di là dei casi in cui è previsto il pronunciamento della giustizia per cui vale ovviamente la presunzione d’innocenza, l’opportunità non sembra più essere un tema rilevante. A partire dalla vicenda Santanchè, che Meloni ha promesso di difendere fino alla fine, passando per il caso del sottosegretario Delmastro o la trovata (meno grave, quantomeno discutibile ma sicuramente ridicola) del ministro Francesco Lollobrigida che ha chiesto di far fermare un treno dell’alta velocità perché era in ritardo sul suo programma. Gennaro Sangiuliano si è dimesso, ma solo dopo aver preso posizioni – poi smentite – in prima serata di fronte al direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci. Insomma, la frittata era già bella che fatta e anche a palazzo Chigi nessuno vedeva più alternative alle dimissioni: nel dubbio il direttore è caduto in piedi, guadagnando la corrispondenza da Parigi e recuperando una candidatura per il Consiglio regionale della Campania. Per non dire dei conflitti di interesse che a differenza di altri paesi europei, in Italia non valgono mai una dimissione, piuttosto una promozione: come nel caso di Guido Crosetto, che dalla lobby degli armamenti è finito a fare il ministro della Difesa; o di Claudio Durigon per questioni di casa comprata da un ente vigilato dal ministero del Lavoro. «Azzeriamo il garante»: M5s e Pd per lo stop. E FdI non si oppone Buchi e toppe Qualche eccezione eccellente di dimissioni di inamovibili resta agli atti, una su tutte quella di Riccardo Villari, presidente della Vigilanza nel 2008 per appena due mesi con i voti di Silvio Berlusconi e disposto anche ad accettare l’espulsione dal Pd prima di «essere dimesso» dalla politica con una complicata manovra parlamentare. In Rai si ricordano le dimissioni a caldo di Nino Rizzo Nervo dal Tg3 e di Gad Lerner dal Tg1. A lasciare prima del tempo anche Carlo Fuortes, per cui Sangiuliano (stavolta da ministro) aveva previsto però una exit strategy da viale Mazzini. Negli ultimi mesi, va segnalato l’addio di Manlio Messina da FdI dopo i guai del partito in Sicilia, mentre per Emanuele Pozzolo, accusato di aver ferito un membro della scorta di Delmastro, è stata necessaria l’espulsione dal partito. Nel dubbio, comunque, è ancora parlamentare. Come anche Aboubakar Soumahoro, ex eletto di Avs e difensore del «diritto al lusso» di sua moglie che ne avrebbe goduto a spese delle coop che guidava. Che poi, resta una questione. Se anche i membri del collegio del garante si dovessero dimettere, infatti, le procedure d’elezione non cambierebbero. A chiedere in questi giorni di Stanzione e degli altri nomi che i servizi di Report ci hanno insegnato a conoscere, nessun parlamentare voleva averli mai visti e conosciuti (con l’eccezione di Agostino Ghiglia, che a via della Scrofa era una faccia ben nota). Sono stati eletti in un’altra legislatura, vero. «Ma su questi voti è difficile che ci siano discussioni. Il nome è quello che propone il partito, fine» racconta un ex parlamentare che di queste nomine ne ha viste passare parecchie. Insomma, alla fine, quando un candidato competente incontra un candidato affidabile, il competente è un candidato finito. Anche se l’affidabile poi, spesso, tanto affidabile non si rivela.