«O bianco fiore, simbol d’amore/ Con te la gloria della vittoria!» Chi ricorda la marcetta di inizio Novecento? Era l’inno della Democrazia cristiana, veniva suonato ai raduni dello scudocrociato con l’inno nazionale, fu mandato in pensione nell’estate del 1993, trent’anni fa, quando il partito chiuse i battenti al palazzo dei congressi dell’Eur, tra le note più severe del concerto per pianoforte e orchestra in do maggiore K 467 di Mozart.

Venerdì all’auditorium della Conciliazione, agli Stati generali della natalità, il Biancofiore e Fratelli d’Italia sono tornati ad affiancarsi, non in termini musicali ma politici, quando una donna di bianco vestita è apparsa accanto all’uomo in bianco per eccellenza, il papa. I capi democristiani, tutti rigorosamente in abito scuro, non avrebbero mai immaginato di condividere un palco con il pontefice, come ha fatto Giorgia Meloni. Ma il suo Biancofiore non è questione di armocromia, è un progetto politico.

Spiega quanto fatto e detto negli ultimi giorni, dalla proposta dell’investitura diretta del capo dell’esecutivo all’invasione di nomine negli apparati di sicurezza e nelle società partecipate. L’ambizione di rappresentare, dopo la Dc, il partito della nazione.

L’Operazione Biancofiore si presenta con altri mezzi rispetto al modello di Matteo Renzi del 2014-2016, perché c’è un disegno che all’ex sindaco di Firenze mancava. Renzi era post ideologico, dentro la globalizzazione e la fine della storia, Meloni è figlia del trentennio di storia della destra italiana, con un blocco sociale di riferimento, interessi ferocemente rappresentati e difesi e un linguaggio comune, amplificato da un circuito mediatico mai scalfito in tre decenni, oggi più agguerrito che mai: il moderno principe, la cinghia di trasmissione con gli elettori.

Giorgia Biancofiore, ripetendo le parole identitarie, nazione, patria, famiglia, davanti a papa Francesco, vuole definire un perimetro, un confine, un muro. Chi è dentro e chi è fuori. La nazione sono io, suggerisce la premier, qui sono i valori, qui dentro c’è il governo che prima o poi troverà anche il suo volto istituzionale (il presidente) e il suo quadro internazionale (l’alleanza Ppe-conservatori in Europa), qui il nuovo partito da costruire: il partito-stato.

Chi è fuori da qui è legittimato a fare l’opposizione, ma non a governare. Una sirena assordante per quei pezzi di centro, da Renzi a Casini, che ora sono fuori ma potrebbero presto tornare dentro. Se si crea questo nuovo blocco, all’opposizione non resterà che presidiare quel che è fuori da quel perimetro, dall’altra parte del muro, che forse non è molto e non fa la maggioranza.

Per il Pd e per Elly Schlein la necessità è sfondare quel perimetro, abbattere il nuovo muro che si vuole costruire, il recinto di una nuova democrazia bloccata. Come quella vista nei decenni della Dc, che almeno considerava la lotta politica una sfumatura di grigio.

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