Il 28 aprile del 2008 i romani se lo ricordano abbastanza bene. E se poi la memoria difettasse basta affidarsi alle fotografie. Alcune hanno immortalato un gruppetto di ragazzi che passeggia per piazza Venezia sventolando una bandiera con la croce celtica. Le altre mostrano piazza del Campidoglio gremita, così come le scale del palazzo Senatorio. Tricolori in festa e un gruppo abbastanza nutrito di persone col braccio destro rigidamente esibito.

«Saluti romani» titolava all’epoca Repubblica aggiungendo nella didascalia un più preciso «saluti in stile fascista». Era lo “stile” dei sostenitori di Gianni Alemanno che quel giorno, bottiglia di spumante in mano, festeggiava così la sua elezione a sindaco della capitale. Un’occasione di riscatto per una generazione, un popolo fino ad allora considerato, nonostante le abiure di Gianfranco Fini, un pericolo per la democrazia. Sappiamo come è finita.

L’ora di Meloni

Domenica notte, mentre i risultati delle elezioni politiche diventavano sempre più reali, a tutti è stato immediatamente carico che Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni avevano vinto. Lei stessa, intorno alle 3 si è presentata davanti alle telecamere per dire che «questo è il tempo della responsabilità, il tempo in cui se si vuole far parte della storia si deve capire quale responsabilità  abbiamo verso decine di milioni di persone perché  l’Italia ha scelto noi e non la tradiremo come non l’abbiamo mai tradita». Fine delle trasmissioni.

Come ha scritto Salvatore Merlo sul Foglio quella notte Meloni ha inviato un sms a tutti i suoi parlamentari. Niente bandiere, niente festeggiamenti per le strade di Roma. Il riscatto c’è, e stavolta è ben superiore a quello celebrato da Alemanno visto che mai una donna, per giunta erede della tradizione del Msi, era arrivata a palazzo Chigi. Ma non va ostentato. Stile sobrio, che quello “fascista” non porta troppa fortuna.

Da lì in sappiano solo che Meloni ha trascorso qualche ora in palestra con il suo personal trainer, ha risposto, via Twitter, alle congratulazioni di alcuni leader europei e internazionali (la britannica Liz Truss, il polacco Mateusz Morawiecki, l’indiano Narendra Modi, Volodymyr Zelensky e il primo ministro ceco, Petr Fiala), ha incontrato gli alleati Antonio Tajani e Matteo Salvini.

Non una parola. Un commento, una dichiarazione programmatica. Al suo posto si è esposto, con un’intervista al Corriere della sera, il compagno Andrea Giambruno, che ha colto l’occasione per spiegare che lui e Meloni hanno «opinioni divergenti su alcuni temi etici» . Quindi i due, insieme, attraverso l’avvocata Annamaria Bernardini de Pace (la stessa di Francesco Totti), hanno inviato una diffida ad agenzie e quotidiani per invitarli non pubblicare immagini di loro figlia Ginevra. Infine la leader di Fratelli d’Italia, sempre attraverso i social, ha espresso tutta la sua «vicinanza alle coraggiose donne che si battono in Iran e nel mondo per difendere i loro diritti e la loro libertà».

Insomma, al netto delle parole del cognato-deputato Francesco Lollobrigida sulla necessità di modificare la Costituzione e rivedere «la sovranità del diritto Ue», la leader di FdI tace. «Per adesso dovete aspettarvi soltanto il silenzio – ha detto Daniela Santanchè sempre al Foglio – Giorgia Meloni prima fa le cose e poi le comunica».

Dire o non dire?

C’è ovviamente, in questa postura meloniana, tutta la consapevolezza di quanto sia delicato il momento. Le leader di FdI sa che non può permettersi sbavature, errori, messaggi che rischiano di confermare i timori di quanti, in Italia e all’estero, guardano con preoccupazione alla sua ascesa a palazzo Chigi.

Ma c’è anche molto del “draghismo” che abbiamo apprezzato e lodato nei primi mesi del governo guidato da Mario Draghi (almeno fino a quando, un po’ disordinatamente, non ha detto di essere a disposizione per essere eletto presidente della Repubblica). L’ex banchiere centrale, diventato presidente del Consiglio, è stato per settimane in silenzio. Un po’ per quell’imprinting gesuitico che gli ha sempre permesso di esercitare ruoli di leadership senza comandare. Dicendo, ma molto più spesso tacendo. Un po’ perché anche quello era un mondo per segnare una distanza antropologica da chi lo aveva preceduto. Dagli show casaliniani dell’avvocato del popolo Giuseppe Conte, ma anche dall’iperpresenzialismo social di Matteo Salvini.

Verrebbe quasi da dire che il Draghi bis si stia realizzando per interposta persona. Non a caso ieri, mentre il leader della Lega postava un video girato nei suoi uffici del Senato «per ringraziare i milioni di italiani che hanno scelto la Lega e il centrodestra», mentre annunciava «siamo già al lavoro, giorno e notte, non sulle poltrone, sui nomi e i ministeri, ma sulle emergenze vere, caro bollette, il problema sicurezza, la qualità della vita, degli stipendi e il lavoro», Meloni taceva. E fonti di FdI la raccontavano impegnata sui «dossier del caro energia e approvvigionamento energetico». Stesso messaggio, in fondo, ma con modalità estremamente diverse. 

Il lord protettore

L’impressione è che sarà così anche nei prossimi giorni. Forse addirittura per tutta la durata dell’esperienza di governo che Meloni e Salvini si apprestano a condividere. Il che è sicuramente un vantaggio in questa fase, ma potrebbe diventare un problema se il leader della Lega, ferito ma non ancora del tutto sconfitto, dovesse decidere di alzare il tono.

Di certo c’è che Meloni può contare su un “lord protettore” di tutto rispetto. In questo momento Draghi è sicuramente l’alleato più fidato della leader di FdI. Senza dimenticare il ruolo del presidente della Repubblica che di certo sta apprezzando questo metodo di lavoro. Ieri il presidente del Consiglio è stato costretto a smentire un retroscena di Repubblica che parlava di un patto tra lui e Meloni: «Palazzo Chigi smentisce la tesi e il contenuto dell’articolo. Il presidente del Consiglio non ha stretto alcun patto né ha preso alcun impegno a garantire alcunché. Il presidente del Consiglio mantiene regolari contatti con gli interlocutori internazionali per discutere dei principali dossier in agenda e resta impegnato a permettere una transizione ordinata, nell’ambito dei corretti rapporti istituzionali».

Insomma, il patto non c’è, ma un certo “supporto” sì. Dire, senza dire.   

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