La capitale della politica italiana è Catanzaro. Le alleanze e i nomi dei candidati non si determinano nel grigio palazzone della Regione Calabria, inaugurato nel 2016 nella periferia cittadina, ma in un edificio giallo nel centro storico, in via Falcone e Borsellino: la procura della Repubblica di Nicola Gratteri.

L’ultima bomba in ordine di tempo ad aver terremotato la già convulsa fase politica attuale è l’indagine “Basso profilo”, sulla sinergia tra ‘ndrangheta e amministratori pubblici: l’ipotesi di reato è associazione per delinquere con l’aggravante mafiosa e ha prodotto quarantotto arresti in tutta Italia, tra cui membri di primo piano dell’Udc in regione Calabria come Francesco Talarico, e iscrizione nel registro degli indagati – tra gli altri - del segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, a causa dei suoi contatti con un imprenditore calabrese che, secondo la tesi accusatoria, sarebbe il collettore della ‘ndrangheta nel crotonese.

Cesa si è dichiarato estraneo ai fatti e si è dimesso dalla segreteria, ma la sola notizia dell’indagine ha assestato un colpo forse mortale alla trattativa in parlamento per la costituzione del nuovo gruppo a sostegno del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. «Ho ricevuto un avviso di garanzia, i fatti contestati risalgono al 2017», ha dichiarato Cesa in una nota. L’inchiesta, infatti, è ancora nella fase delle indagini preliminari ed è difficile prevedere quando approderà in un’aula di giustizia in cui si stabilirà quanto è solido l’impianto accusatorio. E, prima ancora, quante delle accuse agli arrestati e indagati si concretizzeranno in rinvii a giudizio. L’operazione di polizia e la relativa notizia, però, sono arrivate sui giornali proprio all’indomani della quasi crisi di governo. E, soprattutto, nelle ore di trattative perché i senatori dell’Udc traslochino nella maggioranza di Conte, portando in dote anche il simbolo che permetterebbe la nascita di un nuovo gruppo “del presidente” al Senato.

La notizia è stata accolta da alcune ore di imbarazzato silenzio soprattutto sul fronte dei Cinque stelle, da sempre sostenitori del magistrato calabrese. Poi, nel pomeriggio, è arrivato il tweet di Alessandro Di Battista: «Chi ha condanne sulle spalle e indagini per reati gravi, perché Cesa non è certo indagato per diffamazione, non può essere un interlocutore». Poi, a dare il colpo di grazia all’operazione “costruttori” è arrivato il ministro Luigi Di Maio: «Mai il M5S potrà aprire un dialogo con soggetti condannati o indagati per mafia o reati gravi. È evidente che questo consolidamento del Governo non potrà dunque avvenire a scapito della questione morale». Sedere accanto ai compagni di partito di un indagato di Gratteri sarebbe un imbarazzo insostenibile per i grillini, paladini del metodo giudiziario di Gratteri che tante volte ha colpito i partiti della Seconda repubblica. Tutto da rifare dunque a palazzo Chigi, che già immaginava di offrire un ministero tra quelli lasciati da Italia Viva ai transfughi dell’Udc e di chiudere così la partita per il Conte ter.

Le indagini calabresi

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte è solo l’ultimo di una lunga fila di politici a cui le iniziative giudiziarie Gratteri hanno mandato all’aria le strategie, ma è sicuramente la vittima più illustre. Prima, gli effetti hanno inciso soprattutto sulla politica locale: anche le ultime elezioni regionali calabresi, infatti, hanno subito pesantemente il riflesso dell’attività di procura. A farne le spese il presidente uscente del Partito democratico e poi non ricandidato, Mario Oliverio, e il potenziale candidato del centrodestra, Mario Occhiuto.

Oliverio è entrato nel mirino della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro nel 2021: l’inchiesta si chiamava “Lande desolate” e ipotizzava i reati di abuso d’ufficio e corruzione nella realizzazione di tre opere pubbliche. A pochi giorni dalla chiusura delle candidature per le regionali del 2020, a cui Oliverio vuole comunque ripresentarsi, un’altra richiesta di rinvio a giudizio: un’accusa di peculato per un maxi-finanziamento da 95mila in teoria destinato ad “attività di promozione turistica” nel 2018, che sarebbe servito per una “personale promozione politica”. E’ il colpo di grazia: Olvierio si ritira dalla corsa, anche su forti pressioni del Partito democratico, lasciando il campo all’imprenditore Pippo Callipo. Callipo verrà poi sconfitto da Jole Santelli consegnando la Calabria al centrodestra, ma di fatto aprirà la sua campagna elettorale prendendo parte a una manifestazione di sostegno a Gratteri, in seguito ad alcuni attacchi politici da lui subiti.

Anche la candidatura di Santelli è nata sulla scia di un’inchiesta di Gratteri: il candidato ufficiale del centrodestra è quello del sindaco di Cosenza Mario Occhiuto, ma sceglie di ritirarsi dopo che nel maggio 2019 finisce nell’inchiesta gemella a “Lande desolate”, che si chiama “Passepartout”, in cui viene indagato per corruzione insieme a Oliverio. Nel luglio 2020 Occhiuto viene prosciolto con la formula del non luogo a procedere e dunque nemmeno arriva al processo. 

Il 4 gennaio scorso anche Oliverio viene assolto perché il fatto non sussiste nell’inchiesta “Lande desolate”, ma rimane ancora sotto giudizio nel processo “Passepartout” (inizierà ad aprile) e in quello sui fondi turistici.

Questo è il clima, in Calabria. Dove non a caso sta per arrivare un ex magistrato molto vicino a Gratteri: l’ex sindaco di Napoli ed ex sostituto procuratore proprio a Catanzaro, Luigi de Magistris si candida alla guida della regione.

Anche lui, nei suoi anni calabresi, indagò la politica: l’inchiesta “Poseidone” del 2005 coinvolse proprio Lorenzo Cesa dell’Udc, oltre che i vertici di allora della regione; l’inchiesta forse più nota, “Why not” iscrisse nel registro delle notizie di reato tra gli altri anche l’allora Guardasigilli, Clemente Mastella. Proprio lui, nel corso dei suoi anni da politico, è stato uno dei pubblici sostenitori dell’operato di Gratteri.

Il più popolare d’Italia

Ad amplificare tutto, c’è l’amore – ricambiato – della stampa per il procuratore Gratteri. Il giorno dopo le manette ai vertici Udc e dunque nella fase delle indagini preliminari, il magistrato ha rilasciato due interviste in cui discute delle accuse a carico dei politici: le sostanzia argomentando le ipotesi di reato, non si sottrae a domande specifiche con nomi e cognomi, commentando le posizioni dei singoli indagati come Cesa e non indagati come Pierferdinando Casini. Al Corriere della Sera aggiunge di aver sentito dire a Cesa che l’Udc non sarebbe entrato nel governo, dunque il problema di far scattare le misure cautelari in questa fase politica «non si è posto». Anzi, specifica che le ordinanze erano pronte da una settimana ma che aveva scelto di aspettare ad eseguirle per non interferire con le prossime elezioni regionali calabresi. Insomma, il procuratore si è interrogato sull’opportunità e lo ha risolto ritenendo che no, il deflagrare dell’inchiesta non avrebbe interferito con una trattativa politica che uno degli indagati aveva smentito in televisione.

La risposta forse più interessante, però, è quella sulla grande accusa mossa a Gratteri: inchieste dalle impalcature accusatorie mastodontiche, decine e a volte centinaia di arresti e misure cautelari, poi però tutto si sgonfia nel corso del processo e poi della sentenza. «Se i giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni». E siano avvisati i suoi colleghi giudicanti. Il riferimento, nemmeno troppo velato, sarebbe al cosiddetto “sistema Catanzaro”, che nasconderebbe trattative sotterranee per aggiustare giudizi guidato da una «congrega» (così l’ha definita un boss pentito della ‘ndrangheta) di magistrati, avvocati e professionisti inseriti in circuiti massonici, su cui ha indagato la procura di Salerno. 

Eppure, nel gioco dei buoni e dei cattivi, il feeling della politica con Gratteri è forte: una sorta di calamita. Oppure la dimostrazione che bisogna tenersi più stretti i nemici che gli amici. Lo sapeva Matteo Renzi, che nel 2016 gli avrebbe offerto il ministero della Giustizia ma sarebbe stato fermato dal veto del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Lo sa anche l’attuale Guardasigilli, Alfonso Bonafede, che ora ha proprio Renzi come avversario pronto a votargli contro in aula il 27 gennaio, sulla relazione sulla giustizia.

In questo momento di massima debolezza, Bonafede ha bisogno di amici e il più potente, oggi, nel panorama giudiziario lavora a Catanzaro. Proprio dove il ministro andrà il 30 gennaio in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che avrà luogo nell’aula bunker di Lamezia Terme. Il 29 gennaio la cerimonia si svolge in Cassazione con tutti i vertici dell’ordinamento giudiziario, il giorno successivo invece si celebra nelle 26 corti d’appello e il ministro ne sceglie una a cui presenziare e la scelta ha sempre un peso politico. Una dimostrazione concreta che, in questa fase convulsa, la protezione politica si ottiene più al palazzo di giustizia di Catanzaro che a palazzo Chigi a Roma.

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