Diciamo la verità. Alla fine, forse, bisognerà ringraziare perfino Ignazio La Russa, il suo costante e chissà quanto involontario richiamo al carattere tragico e insieme operettistico del fascismo italiano, se questo 25 aprile 2023 si è trasformato in una data fondativa e ri-fondativa, ri-generativa, senza quel carico di monumentalismo e di retorica che porta con sé una festa comandata.

Il 25 aprile 2023 come il 1960 del governo Tambroni, che fu la prima riscoperta della Resistenza, da cui partì il centro-sinistra, come il 25 aprile 1994, il primo della cosiddetta Seconda Repubblica, con le destre al governo, quando il monaco Giuseppe Dossetti si appellò contro i tentativi di cambiamento della Costituzione, mascherati da riconciliazione.

Non è chiaro quale sarà, se ci sarà, lo sviluppo politico del 25 aprile 2023: forse nessuno. Quello che si vede, però, è intanto una riscoperta civile e culturale, una riappropriazione. La festa della Resistenza di Roma alla sua prima edizione, nel quartiere della Garbatella, è stata, per esempio, un successo di popolo, l'anticipo di quello che sarà oggi il 25 aprile a Marzabotto, a Pianaccio, nel ricordo di Enzo Biagi, a Milano e in tantissime altre città italiane.

Appuntamenti partecipati, in cui la Resistenza viene celebrata, ma anche problematizzata. La Resistenza dei cattolici, con la questione della violenza armata, sui cui si sono interrogati gli storici Giorgio Vecchio e Alessandro Santagata. La Resistenza raccontata da Italo Calvino, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, anti retorica.

Una Resistenza che tarda ad arrivare, come in Una questione privata: «Quando dici che finirà, patriota? – Primavera, – rispose, ma la voce gli uscì troppo rauca e falsa. Diede un colpo di tosse e ripetè: - Primavera. Allibirono. Uno bestemmiò e disse: - Ma quale primavera? C’è una primavera di marzo e una primavera di maggio. - Maggio, - precisò Milton».

Maggio, più in là. Il carattere divisivo del 25 aprile era ben noto ai protagonisti di allora. Per i giovani nati negli anni Venti del Novecento la guerra partigiana era stata una rottura, con sé stessi, la famiglia, la tradizione, la formazione. C’è un momento, il momento della scelta, che è fondamentale.

Tutta la Resistenza italiana è un momento di rottura con la storia nazionale: un atto di disobbedienza radicale, una cesura che precede la propria coscienza e poi nella costruzione di una nuova comunità che sarà la Repubblica costituzionale.

Laddove il nazifascismo aveva significato l'opposto, l'attacco alla comunità nel suo insieme, «la gente umile e inerme, che trema come una foglia, ma reagisce in modo splendido», come scrive Dossetti nell'introduzione de Le Querce di Monte Sole di Luciano Gherardi (Il Mulino, 1986).

Molte facce

La Resistenza ha molti volti e sfaccettature, un rimescolamento di appartenenze e di identità, di fedi e fedeltà, come si è detto, è uno strappo prima di tutto individuale e poi collettivo. «La Resistenza ha portato in dote alla nascente democrazia l'ambizioso disegno di una politicizzazione attiva degli italiani, contro ogni rassegnato rinserrarsi nell'individualismo, contro ogni latitanza degli onesti», ha scritto Michela Ponziani in Processo alla Resistenza, appena pubblicato da Einaudi. È questo è il bersaglio (contemporaneo) di chi sogna la cancellazione del 25 aprile nel gran bazaar delle date storiche, dove tutte le merci sono una accanto all'altra, in una contrattazione continua.

È questo il rischio della memoria condivisa. Uno dei suoi più tenaci assertori già negli anni Novanta, Luciano Violante, è intervenuto ieri per ripetere che «destra e sinistra non sono più le grandi categorie novecentesche, sono arcipelaghi». Ma in questo mare le distanze sono annullate, ogni lembo di terra si somiglia.

E il risultato non è stata una democrazia più matura, semmai più vuota, priva della linfa della partecipazione, come avviene in tutti i turni elettorali e ancor più nella società, dove ciascuno è lasciato in solitudine a vivere la sua guerra personale, la sua questione privata.

Un paesaggio gelido e inerte, in cui non esistono distinzioni, un indistinto senza riconciliazione e verità, pura successione degli eventi, dove ha ragione sempre chi ha vinto. Ma se è così, non restano che i tecnici, i nazionalismi e i populismi, che infatti hanno preso il sopravvento in questi decenni. Mentre nel 25 aprile, nella Liberazione, c'è una rottura in cui tutti ancora oggi possono identificarsi. Per condurre le resistenze del presente.

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