La “rilevanza”: sembra che l’ossessione dalla quale il cattolicesimo italiano recente non riesce a liberarsi, sia proprio questa. Una “rilevanza” che si ritiene di aver avuto qualche decennio fa, che si constata perduta, che si crede possa essere recuperata con nostalgie che, per quanto rinviino a età diverse, guardano al passato, come se non fosse quel passato che ha prodotto ciò che si depreca.

La prima nostalgia l’ha enunciata p. Bartolomeo Sorge. Antico direttore di Civiltà Cattolica, attivista politico nella Palermo di Leoluca Orlando entrato nella schiera dei maestri per anzianità. In una intervista alla sua ex rivista ha cantato le lodi dei tempi del convegno dei Mali di Roma del 1975 e del convegno nazionale ecclesiale su Evangelizzazione e promozione umana del 1976.

Erano gli anni del post-concilio, Galli della Loggia scriveva su «Marx e il problema della maggioranza nei regimi democratici», Moro leggeva Il Dio crocifisso di Jürgen Moltman, e la chiesa italiana, chiamata da Fanfani alla prova di «inutile eroismo» (parole di Paolo VI) del referendum sul divorzio, dimostrava di essere ancora in cerca di una fisionomia ecclesiologicamente fondata che la emancipasse da una funzione di stampella. Chiesa guidata da una conferenza episcopale di cui Enrico Bartoletti era il segretario allo stesso titolo in cui Berlinguer era segretario del Pci; di una Roma il cui cardinal vicario Dell’Acqua aveva alle spalle una esperienza nell’ufficio di sostituto e un familiarità di decenni con quello che la storia avrebbe detto il (pen)ultimo papa italiano.

Lo schema politicistico
Quella chiesa e quella Roma che non riuscì, né allora né dopo, ad imboccare una via davvero sinodale, rimanendo nel guado politicistico e per alcuni politicante che avrebbe dissanguato le sue energie spirituali. Quando Paolo VI – non Fanfani – decide che la condanna di dom Franzoni deve bilanciare quella di Lefebvre e proteggere la sua funzione di «principe riformatore» (rubo da sempre impunemente l’espressione ad Andrea Riccardi) traccia una via dalla quale non ci si può emancipare: e che spingerà verso una politicizzazione a sinistra una parte della militanza cattolica e inchioderà l’altra dentro il contenitore democristiano, ristrettosi enormemente dopo la morte di Moro.

La questione della “rilevanza”, in fondo, si pone allora come opzione: e due risposte apparentemente divergenti (schierarsi a destra o a sinistra) convergono nell’individuare l’agone politico come campo di una militanza comunque inospitale all’intelligenza critica e spirituale (quella di Andreatta, di Alberigo, di Ruffilli, di Bazoli, di Scoppola e via dicendo). Senza rendersi conto che è proprio lì – ridurre l’adesione interiore della fede la premessa di una fruibilità politica della adesione – che si genera la trappola di cui oggi si vedono le conseguenze come irredimibili. Perché dopo decenni nei quali la coltivazione della coscienza e il culto della competenza avevano preparato le classi dirigenti del domani, iniziava la stagione dell’opportunismo, di cui il debito pubblico era l’esantema, la clientela l’esito, la corruzione (mafiosa e non) il corollario, la dissoluzione il destino.

Il ruinismo
Una seconda nostalgia, in risposta a Sorge, l’ha proposta ancora di recente il cardinale Camillo Ruini. Protagonista della stagione successiva, il  cardinale capranicense era portatore di un postulato politicamente assai più netto. Era solo a destra che la chiesa poteva e doveva giocare con assoluto cinismo le proprie carte (lo pensa anche oggi, e per questo scarica la Lega e FI per dare un endorsement a Giorgia Meloni che onestamente non ha fatto molto per meritarlo): perché una chiesa diffidente verso la coscienza e noncurante verso le competenze non aveva da dire niente, da dare niente e da prendere niente in un centrosinistra in cui l’azione federatrice di Romano Prodi cercava di allargare la base popolare senza mezzi propagandistici che hanno inseminato il populismo.

E dunque Prodi diventava il nemico pubblico numero uno e Berlusconi l’amico pubblico numero uno, pur avendo i due rapporti notoriamente diversi con un tot di comandamenti (salvo il quinto).

Per Ruini e per il ruinismo la chiesa italiana di Bartoletti e Dell’Acqua era la chiesa che aveva perso tempo: cercando vanamente di trovare vescovi di spessore e di fornire politici di qualche consistenza ormai inutili in un contesto politico nel quale non era la presa sul territorio delle parrocchie a mobilitare e a spostare voti. Bastava una chiesa forte di alcuni “valori” (che sono «beni che hanno la proprietà di acquistare altri beni») che non hanno bisogno di essere inverati da alcuna pratica, perché servono solo ad attirare l’attenzione verso chi dice di farli suoi.

Trecento vescovi muti e brontoloni
La “rilevanza” ruiniana era questa: trecento vescovi muti, brontoloni  e plaudenti, più un cardinale che ammicca ad una destra incapace di diventare, anche per colpa sua, un vero partito liberal-conservatore e nella quale l’imprinting così cattolico del federalismo protoloeghista di Miglio si disperde fino a diventare sovranismo finanziato in valuta straniera. Di fronte, quando il bipolarismo consegna la responsabilità al centro sinistra prodiano, un centrosinistra di cui la chiesa erodeva le base, in un erosione accelerata da fattori disgregativi interni e dai pierini di un laicità pariolina e modaiola. E quando la crisi ha morso, nel 2011 coi denti dello spread, poi con quelli della crisi e nel 2020 con quelli del Covid quella “rilevanza” fatta di niente si è rivelata per quel che era: niente. Niente classe dirigente, niente ricambi, niente autorità morali salvo quelle giocate nell’elezione per il Quirinale del 2015.

Il tentativo di rianimazione bocca a bocca della chiesa italiana compiuto da papa Francesco al convegno di Firenze del 2015, quando ha scosso l’episcopato con parole di fuoco, non ha sortito effetto. Anzi l’episcopato s’è disfatto di monsignor Galantino, il segretario generale percepito come un pungolo insopportabile nella carne morta, ha cercato una decantazione, ha esitato davanti all’uso blasfemo dei simboli della fede come amuleti della destra e, durante il lockdown, è sprofondato in un letargo online.

I bene informati dicono che non è proprio letargo: ma pretattica in vista della elezione dei due vicepresidenti. Ma i poco informati ritengono che se anche venissero eletti due Borromeo redivivi, nulla potrebbero se la chiesa non esce da quella ossessione per una “rilevanza” senza contenuti cristiani limpidi. La “rilevanza” del credente della chiesa – papa Francesco lo ha dimostrato a più riprese – c’è laddove si esprime l’autenticità interiore dell’unica realtà che ancora oggi copre tutto il paese, ne esprime tutte le fasce, veicola tutti gli umori, percepisce tutte le pene, raccoglie tutte le speranze: se non c’è autenticità quella ossessione diventa solicitatio ad turpia nei confronti della politica e produce quel che si vede oggi: una morta gora in cui i nostalgici della “rilevanza” possono illudersi di essere il rimedio ad una letargia di cui sono stati la causa.

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