Più di tutti, secondo solo a Ciampi. Secondo l’istituto Swg il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, sta concludendo il settennato con un record di gradimento. Il sondaggio è stato fatto fra il 28 e il 30 luglio. Il capo dello stato era partito con un iniziale (e basso) 41 per cento di cittadini che gli davano fiducia, nel 2015 al momento dell’elezione, per arrivare oggi al 63. Un balzo, solo Carlo Azeglio Ciampi ha chiuso il mandato con un risultato migliore, l’80 per cento. Oscar Luigi Scalfaro aveva iniziato con il 56 e finito con il 43, Giorgio Napolitano era partito al primo mandato con il 59 ma aveva chiuso al 47. E nei due anni di nuovo mandato era passato dal 40 al 39. Ma il dato più interessante del sondaggio è il gradimento di Mattarella da parte delle forze politiche.

Qui i numeri dicono qualcosa di più: raccoglie il 96 per cento dei consensi fra gli elettori del Pd, il 75 di quelli di Forza Italia, il 69 nel Movimento 5 stelle – il cui gradimento cresce significativamente dagli anni della richiesta di impeachment a oggi – il 62 nella Lega. E solo gli elettori di Fratelli d’Italia segnalano scetticismo, tributandogli il 42 dei consensi. Alle italiane e agli italiani piace «la capacità di dare importanza al ruolo» (60 per cento); «la capacità di mediazione politica (59); «l’aver creato un rapporto di empatia con i cittadini» (58); «l’avere dato prestigio internazionale al paese» (57); il 56 per cento ne ha apprezzato «l’imparzialità»; il 55 «la capacità di prendere decisioni giuste».

Orizzonte vicino

I numeri, a spanne ma con ragionevole buona approssimazione, corrispondono alla disposizione dei partiti nei confronti del capo dello stato. Dal 2 agosto è iniziato il semestre bianco, ovvero è scattato il conto alla rovescia dei sei mesi in cui le forze politiche dovranno trovare una maggioranza – ampia, almeno per le prime votazioni – per eleggere il nuovo capo dello stato. Solo che per una buona parte delle forze politiche oggi in parlamento il miglior nuovo capo dello stato è quello vecchio, cioè quello attuale: il presidente che nel febbraio 2021 ha dichiarato impossibile andare a votare e ha fortissimamente voluto Draghi, affidandogli la formazione di un governo «senza alcuna formula politica». A prescindere anche dal segno del voto delle amministrative – ieri è arrivata la data, il 3 e il 4 ottobre – Draghi resta a oggi l’unico che può portare fino a scadenza naturale la legislatura, come ha ricordato l’altra sera il più draghiano dei leghisti, Giancarlo Giorgetti: «In questo momento tutto si tiene attorno alla figura di Mario Draghi», «se lui decidesse di andare a fare il presidente della Repubblica non vedo come il governo possa andare avanti», «mancherebbe l’elemento fondamentale di collante tra partiti molto diversi».

Questa considerazione va combinata a un’altra che ripete spesso Enrico Letta: «Il Pd è per Draghi premier fino al 2023». Per il resto il segretario Pd promette che fino a dopo Natale non parlerà dell’elezione del Colle. Ma da alcuni commentatori non lontani dalla sensibilità dem il tema del reincarico a Mattarella comincia a circolare. Il presidente della Repubblica è sembrato escludere questa possibilità lo scorso maggio, durante una conversazione con i bambini di una scuola romana («Tra otto mesi il mio incarico termina (...) sono vecchio, tra qualche mese potrò riposarmi»). Ma di quel discorso ci sono due scuole interpretative opposte.

Ieri il sito Linkiesta ha ipotizzato che Mattarella si dimetterà un mese in anticipo, il 6 gennaio 2022 anziché il 3 febbraio, data di fine mandato. Autorevoli osservatori, che preferiscono non essere citati, spiegano che l’ipotesi servirebbe a imprimere un’accelerazione alla scelta del successore. In questo ragionamento è Draghi. Al quale non ci sarebbe alternativa, come ai tempi thatcheriani degli ultrà del libero mercato: Tina, «There is no alternative». Draghi a fine anno avrà completato o comunque messo in sicurezza le riforme principali (le due sulla giustizia, quella fiscale e la pubblica amministrazione) per assicurare l’arrivo dei fondi europei. Per questo potrà trasferirsi al Quirinale esercitando da lì il ruolo di garante dell’Italia.

Ritorno alle urne?

Ma qui, come in un gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza, quella dove c’è Giorgetti che spiega che se Draghi decide di fare il presidente della Repubblica – come Matteo Salvini in un primo momento chiedeva, ora significativamente ha smesso – il governo va a casa e si torna al voto.

Torniamo alle presunte dimissioni anticipate del presidente. Dal Quirinale non esce neanche uno spiffero. Viene solo ricordata una frase consegnata alla stampa parlamentare, la settimana scorsa. Il presidente ha segnalato che nel “mondo del giornalismo” «affiora, talvolta, l’assioma che un’affermazione non smentita va intesa come confermata, così che una falsa notizia può essere spacciata per vera perché non risulta smentita. Nell’ormai innumerevole elenco esistente di testate stampate, radiotelevisive e online, di siti, di canali social, si tratta di una pretesa piuttosto stravagante», ha spiegato Mattarella, «il presidente della Repubblica sarebbe costretto a un esercizio davvero arduo e preminente: smentire tutte le fake news, fabbricate, sovente, con esercizi particolarmente acrobatici». Insomma, pur senza smentita né ufficiale né ufficiosa la notizia delle dimissioni anticipate viene considerata destituita di ogni fondamento e largamente «agostana». Del resto in ogni caso si comincia a votare per il nuovo presidente prima della scadenza del suo mandato. L’articolo 85 della Costituzione infatti impone la convocazione in seduta comune del parlamento e dei delegati regionali per l’elezione del capo dello stato trenta giorni prima che scada il termine del suo mandato. Le dimissioni anticipate di così poco non cambierebbero la tabella di marcia.

Sarebbero quelle di Draghi eventualmente a fare la differenza. Ma senza Draghi, abbiamo visto, il parlamento va a casa e un nuovo governo e una nuova maggioranza, verosimilmente di destra chiunque vinca la sfida fra Lega e Fdi, dovrebbero rinnegare il “sovranismo” hard e soft, e non modificare la traiettoria politica del rilancio del paese, di cui Draghi sarebbe comunque garante dinanzi all’Europa. Alternativa improbabile se non impossibile. Il professore Stefano Ceccanti, costituzionalista del Pd, la dice così: «In presenza di istituzioni che restano strutturalmente deboli è inevitabile puntare sulla continuità di entrambe le persone che attualmente ricoprono i due ruoli di vertice. Brecht diceva che era beato il popolo che non aveva bisogno di eroi. A oggi non siamo un popolo beato».

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