Il 3 settembre Mario Draghi ha compiuto 75 anni, a quell’età i vescovi e i capi dicastero della curia vaticana sono obbligati a rimettere l’incarico, ma il premier romano che ha studiato da gesuita non sembra alla vigilia della pensione.

A tre settimane dal voto vive una stagione di inattesa serenità. Lo scioglimento anticipato della legislatura lo ha messo al riparo da manovre parlamentari, voti di fiducia, trattative con i partiti, rotture e ricuciture, ma non gli impedisce la possibilità di governare.

Negli ultimi giorni, il presidente del Consiglio ha dato il via libera all’operazione di cessione di Ita alla cordata che vede il fondo Usa Certares con Air France-Klm e Delta Airlines.

Ha strigliato la macchina amministrativa per far approvare 121 provvedimenti a settembre e 122 a ottobre, legati al Pnrr. Ha chiesto al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, di affrettare la presentazione del piano speciale di interventi in vista del Giubileo 2025. Ha preparato con il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, il vertice straordinario dei ministri europei dell’Energia del 9 settembre, in cui l’Italia potrebbe incassare il successo più importante della sua gestione. Trascinare i 27 a dare il via libera al tetto europeo sul gas, cavallo di battaglia dell’Italia, dopo mesi di divisioni e di resistenze.

Una strada privilegiata

Gli affari correnti di un governo che si muove nel vuoto della campagna elettorale si stanno rivelando una strada privilegiata e sicura, al riparo dai partiti impegnati a chiedere il voto. I pieni poteri correnti.

L’unica iniziativa di campagna elettorale è stata la richiesta di Calenda appoggiata da Salvini, la moratoria dei comizi di fronte all’emergenza energia. Ovvero sospendere tutto e ridare la parola al premier. Così Draghi ha capovolto quanto da lui stesso detto dieci mesi fa citando Ugo La Malfa. «Soltanto in una fase di grande dinamismo è possibile attuare le necessarie modificazioni del meccanismo economico senza incontrare costi elevati», aveva detto il premier il 10 novembre. «L’alternativa è quella che La Malfa chiamò successivamente il “non-governo”». La formula inventata dal leader repubblicano nel libro-intervista con Alberto Ronchey (Laterza, 1977).

L’immagine del non-governo alludeva alla prima Repubblica, ai governi in carica che galleggiavano sui problemi senza affrontarli fino alla crisi successiva. Mentre il non-governo di Draghi, rimasto per l’ordinaria amministrazione, si muove e agisce come se avesse di fronte un orizzonte temporale di anni.

Gli affari correnti esaltano la straordinarietà del potere di Draghi e della sua funzione. Lo stato di eccezione che ha caratterizzato tutta la vicenda politica di Draghi. L’ex banchiere centrale è stato chiamato a diventare il vertice del sistema senza il sistema alle spalle. È una figura che può essere sostituita in seguito al passaggio del voto, che è sempre una «pagina bianca» in mano agli elettori, come disse Sergio Mattarella all’inizio del 2018. Ma non può essere rimossa dal suo ruolo che non è previsto nella Costituzione, è oltre e fuori le legittimazioni democratiche. E per l’Italia rappresenta un segno di vitalità, ma anche di fragilità.

Il premier ha scelto come location del suo primo intervento pubblico dopo la crisi il meeting di Comunione e liberazione di Rimini. Quando era stato fissato il suo intervento nessuno poteva prevedere che sarebbe avvenuto a Camere sciolte e governo dimissionario. Nella stessa sede, la fiera della città romagnola, due anni fa, il 18 agosto 2020, con il discorso sulla distinzione tra il debito buono e il debito cattivo, Draghi aveva dato il primo segnale di disponibilità a salire sul palcoscenico della politica nazionale.

Il più allarmato fu l’allora inquilino di palazzo Chigi, Giuseppe Conte, alla guida del governo giallorosso. La reazione fu, insieme, scettica e sgarbata. «L’ho proposto per la Commissione europea, ma l’ho visto un po’ stanco», sibilò l’avvocato del popolo. La proposta era avvenuta durante l’ultimo vertice europeo con il presidente della Bce, in modo affrettato e improvvisato. In piedi, mentre si spegneva l’applauso di omaggio dei capi di governo e le porte si stavano chiudendo, Conte aveva avanzato l’ipotesi di una futura candidatura alla commissione europea, che era stata appena nominata. Draghi aveva declinato. La scortesia di definire in pubblico Draghi come un uomo stanco e appannato tradiva il sentimento di Conte, avvertiva una minaccia, un pericolo, giustificato. Qualche mese dopo Conte cadde e fu sostituito a palazzo Chigi dall’ex presidente della Bce.

I mesi dell’attesa

Chi lo conosce ricorda il Draghi dell’autunno-inverno 2020. Privo di incarichi, a fare la spola tra l’abitazione romana e Città della Pieve, invisibile, chiuso nel silenzio, una rete di fidati contatti italiani e internazionali mai interrotti. Con la consapevolezza di una situazione politica che andava degenerando, in attesa di una chiamata dal Quirinale.

O di una candidatura per la presidenza della Repubblica ancora più incerta. Un incombente che poteva restare a casa o essere invitato a risolvere la crisi.

Il 2 febbraio 2021 Mattarella lo convocò per affidargli l’incarico. E a Rimini Draghi ha ricordato la fotografia di quel momento: «Il bollettino di deceduti e malati di Covid-19 restituiva ogni giorno un quadro tragico. Le scuole erano spesso chiuse e la didattica a distanza non riusciva a rappresentare un’alternativa valida ed equa all’insegnamento in presenza. L’economia faceva fatica a uscire dalla più grave contrazione dal dopoguerra. In Italia e all’estero c’era scetticismo rispetto alla nostra capacità di presentare e iniziare ad attuare un Piano valido per riformare la nostra economia. Sembravamo avviati verso una ripresa lenta e incerta...».

E tutto questo senza mai nominare il predecessore Conte. Il modello di quei mesi aiuta a capire come si comporterà Draghi del dopo-Draghi e quanto peserà la sua sulle scelte future.

Destra non demonizzata

In prima battuta, c’è l’attesa vittoria del centrodestra. Per nulla demonizzata dal premier in carica. «Sono convinto che il prossimo governo, qualunque sia il suo colore politico, riuscirà a superare quelle difficoltà che oggi appaiono insormontabili, come le abbiamo superate noi l’anno scorso», ha detto Draghi a Rimini.

Nessun allarme democratico, neppure in caso di vittoria di Giorgia Meloni. Toni molto diversi da quelli utilizzati da Emmanuel Macron in Francia a proposito di Marine Le Pen o da Joe Biden su Donald Trump. La differenza ovvia è che in Francia e in Usa il presidente in carica è anche il rivale elettorale del leader da demonizzare. Ma il via libera di Draghi al prossimo governo, di «qualunque colore politico sia», non è incondizionato. «Mi auguro che chiunque avrà il privilegio di guidare il paese, saprà preservare lo spirito repubblicano che ha animato dall’inizio il nostro esecutivo».

È la proposta di un patto, o meglio l’obbligo di stipularlo anche per chi ha i voti per conquistare il primato alle urne. In Italia si possono vincere le elezioni, ma non si governa senza aderire allo spirito repubblicano, più corposo della fantomatica agenda Draghi. Oggi quello spirito è rappresentato dal governo in carica e ancora di più dal suo premier: per storia, cultura, formazione.

Per spirito repubblicano si intende il rispetto dei principi costituzionali, compreso l’antifascismo, di cui Draghi parlò il 25 aprile 2021 in visita al museo storico della Liberazione di via Tasso, contro «la progressiva perdita della memoria collettiva dei fatti della Resistenza, sui valori della quale si fondano la Repubblica e la nostra Costituzione, e i troppi revisionismi riduttivi e fuorvianti».

Nello spirito repubblicano c’è la coesione sociale, da tutelare in un paese diviso, il cuore dell’intervento di Rimini 2022. E c’è il quadro euro-atlantico: con Salvini che ormai con cadenza quotidiana si spinge a chiedere il ripensamento delle sanzioni con la Russia il percorso di Giorgia Meloni si complica, come si è visto ieri nel duetto di Cernobbio. Draghi diventa ancor più necessario.

Draghi non è identificabile con un partito, meno mai con un partito di minoranza, nonostante la velleità del terzo polo di presentarsi come la sua lista di riferimento. Se avesse voluto fare un partito si sarebbe candidato alle elezioni, come aveva assicurato di voler fare nel 2005 quando Romano Prodi pensò a lui come ministro dell’Economia del centrosinistra: la nomina successiva a governatore della Banca d’Italia cambiò i piani.

Draghi è semmai il “lord protettore” di cui hanno scritto Rino Formica e ieri Stefano Feltri su Domani, una sorta di garante della futura premier Meloni e anche dell’intero sistema agli occhi della comunità internazionale.

Il patto

Il patto tra Meloni e Draghi non è una novità, è in linea di continuità con l’intera storia repubblicana. È il patto tra chi possiede i voti, il consenso e chi rappresenta in Italia le istituzioni sovranazionali, a partire da quelle atlantiche e finanziarie.

All’alba della Repubblica c’è il viaggio in America, su incarico del presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi, di una delegazione italiana composta da Raffaele Mattioli e Enrico Cuccia. Mattioli è il «fabulous Italian banker», come lo chiamano gli americani, direttore generale della Banca commerciale italiana con il fascismo, presidente a 36 anni.

Mattioli è il capo ideale del Quarto partito, come lo chiama Alcide De Gasperi alla Camera nel 1947. Al governo c’è la Dc che rappresenta il ceto medio e lo farà per cinquant’anni. Il Quarto partito di cui parla De Gasperi ha la forza di identificare gli interessi particolari con l’interesse generale e di presentare se stesso come l’unica classe dirigente solida e di cultura internazionale del paese.

Alla Dc manca questa proiezione, al Quarto partito manca il consenso. È questo il patto storico che regge la Repubblica. L’alleanza tra partiti popolari, che raggiungono il consenso, e il partito atlantico, più tardi definito, in modo polemico e con una certa dose di approssimazione, poteri forti.

Il patto è l’espressione italiana del compromesso che regge le democrazie occidentali dopo Yalta. Liberismo e regole del mercato a livello internazionale e stato sociale e intervento pubblico per redistribuire benessere e ricchezza sul piano nazionale.

Il patto viene stipulato dopo il viaggio in Usa di De Gasperi nel 1947, tra i garanti c’è Luigi Einaudi al ministero del Tesoro e poi al Quirinale. Si spezza all’inizio degli anni Settanta in tutto l’occidente, e in Italia in modo tragico con il terrorismo e il delitto Moro. Ma sopravvive sotto altre forme.

Nell’ultimo governo Andreotti il ministro del Tesoro è Guido Carli, ex governatore di Banca d’Italia e ex presidente di Confindustria. Nel febbraio 1991, Carli chiama il professor Draghi al governo come direttore generale del ministero del Tesoro. In questa veste Draghi, all’epoca 45enne, incontra quasi tutte le settimane Andreotti a palazzo Chigi e di quella classe dirigente arrivata al tramonto conserva una impressione indelebile. Andreotti tutto sa, tutto capisce, nulla affronta. Fino alla dissoluzione.

La seconda Repubblica

Il patto, in forma minore, ha retto anche nella seconda Repubblica. All’inizio l’equilibrio sembra spezzarsi a favore dei poteri senza consenso, con la fine dei partiti e l’avvento dei governi tecnici appoggiati gli eredi del Pci: un filo tessuto con lucidità da Mattioli, che era in strettissimi rapporti con il segretario del Pci Palmiro Togliatti, tramite il cattolico comunista Franco Rodano che è stato assunto nell’ufficio studi romano della Banca commerciale.

Il patto si riproporrà, in forme diverse, nella seconda Repubblica berlusconiana e del centrosinistra di governo. Con l’ex governatore di Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, al governo con Prodi come ministro dell’Economia e al Quirinale con i voti di Forza Italia e di Alleanza nazionale.

Il patto è sembrato riproporsi nel 2021 con il governo di unità nazionale di Draghi, ma si è spezzato ben prima della caduta del governo a luglio. La brusca interruzione è arrivata con il voto sul Quirinale, quando a Draghi è stata negata la carica più alta della Repubblica che invece fu raggiunta da Einaudi e da Ciampi. Draghi sarebbe arrivato al Quirinale direttamente da palazzo Chigi, creando un precedente pericoloso. Ma il patto sarebbe stato riscritto, ai massimi livelli. Il corollario era che Draghi dal Quirinale avrebbe fatto da regista alla ricostruzione di un sistema politico più solido e strutturato.

Partiti senza consenso, e dunque insicuri, hanno invece faticato a scrivere il nuovo compromesso votando Draghi per il Quirinale e alla fine lo hanno rigettato. Il governo dell’ex presidente della Bce è finito in quel momento.

La successiva crisi d’estate è solo una conseguenza logica dello strappo istituzionale di gennaio, l’insofferenza reciproca era arrivata allo sfinimento. I partiti, il corpaccione politico rappresentato dai tipici esponenti del ceto parlamentare, hanno vissuto Draghi come un usurpatore, da rimandare il più presto possibile a casa. Il premier ha sviluppato una certa allergia per le liturgie di palazzo e si è rifiutato di coprire con il suo ruolo il vuoto politico: non poteva essere lui a risolvere il deficit di identità dei partiti. La situazione si ripropone ora, a meno di tre settimane dal voto, in termini quasi surreali. L’intervento di ieri di Giorgia Meloni a Cernobbio conferma che per la leader in testa nei sondaggi, guida del più forte partito di opposizione al governo di unità nazionale appena caduto, non esiste altro programma possibile che non la continuità con il governo Draghi: no alla scostamento di bilancio, conti pubblici in ordine, fedeltà atlantica.

Perfino Matteo Salvini si è ricordato di sottolineare che nell’attuale squadra la Lega conta su tre ministri. Il terzo polo sventola l’agenda Draghi. Il Pd di Enrico Letta prova a giocare una partita sua, ma l’affinità con l’establishment personificato dal premier è ormai l’unico tratto identitario. Resta fuori solo il Movimento 5 stelle di Conte.

Il bivio di Meloni

Dopo il voto il patto può essere riscritto, e allora, in tempi da stabilire, per Draghi tornerà a farsi concreta la prospettiva di una elezione al Quirinale, più ancora che il posto da segretario generale alla Nato o alla Commissione europea. Nell’attesa il “lord protettore” avrà un potere di carattere informale e extra-istituzionale. La seconda debolezza dell’operazione è l’incognita della destra. Saprà la destra di Meloni superare sé stessa e accettare il compromesso. O si farà trascinare dalla sua natura?

Il primo banco di prova è il programma di governo, su cui la leader di Fratelli d’Italia si sta sforzando di offrire qualsiasi rassicurazione, a costo di annullare il suo messaggio di cambiamento. Il secondo sono le nomine, nei ministeri chiave e nelle partecipate pubbliche: le mappe che circolano nei palazzi e sui giornali raccontano di nomi in bilico, alcuni corteggiati (Fabio Panetta per il ministero dell’Economia, non ancora convinto) e altri confermati, vicini o meno al premier in carica, come ad esempio l’amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti, Dario Scannapieco.

Il quadro internazionale

Infine, il quadro internazionale. La guerra in Ucraina è il grande spartiacque della storia che ridisegna le alleanze e le sfere di influenza, sul piano internazionale e nazionale.

Nella Yalta del 1945 all’Italia toccò la mediazione del partito-stato, la Democrazia cristiana, partito popolare e interclassista, in accordo con un potere informale, impersonale, un patto che ha portato l’Italia dal disastro post bellico alla prosperità.

Nella Yalta che si sta elaborando in questi mesi in occidente, quel potere ha trovato un volto e una leadership che si chiama Mario Draghi. Mentre i partiti che si candidano alle elezioni sono deboli e incerti, anche quando (provvisoriamente) arrivano primi nel voto.

Manca sempre un elemento per risolvere l’equazione democratica che si chiama Italia. Con partiti senza rappresentanza e consenso povero e poteri forti che in realtà sono deboli, anzi debolissimi.

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