Non giudicherei eversive le dichiarazioni di Giorgia Meloni rispetto al voto referendario. Più che altro, mi sembrano dichiarazioni grottesche. Sembra una barzelletta: come uno che entra in un bar solo per dire che non vuole entrare in un bar. E non una persona qualsiasi, ma quella a cui è affidata la qualità dei servizi che il bar fornisce.

A me invece andare ieri a votare ha fatto l’effetto contrario di Meloni: mi ingolosisce e mi fa venir voglia non solo di entrare nel bar, ma anche di prendere un caffè. È una delle poche esperienze che con l’avanzare dell’età non smette di commuovermi. Il motivo è molto semplice: perché la democrazia è essenzialmente la scommessa di trasformare coloro che sono sottomessi agli effetti del potere in soggetti del potere stesso.

Per questo il voto commuove: perché la democrazia si oppone allo stato di minorità nel quale percepiamo la politica solo come un giogo, un potere che decide per conto nostro e ci sottrae libertà. Andare al voto è un modo per ricordarci che in democrazia siamo almeno in minima parte padroni di noi stessi. Ecco, adesso ho chiaro ciò che volevo dire nell’incipit di questo articolo: c’è forse qualcosa di altrettanto grave di un gesto eversivo nei confronti della democrazia, ed è la mancanza di rispetto nei suoi riguardi. La democrazia ha bisogno innanzitutto del rispetto da parte dei suoi protagonisti, soprattutto se hanno incarichi istituzionali.

Superare il neoliberismo

Ma c’è anche un altro motivo per affrontare con ottimismo questo lunedì. È evidente infatti che il raggiungimento del quorum sarà essenziale per valutare pienamente l’esito referendario. Ed è altrettanto evidente quanto segnalava Gianfranco Pellegrino su queste pagine qualche giorno fa: l’abuso tattico dell’istituto referendario rischia di usurarne il valore prettamente democratico. Però a me pare che vi siano comunque dei dati politici che possiamo dare già per acquisiti.

A partire dalla scelta del centro sinistra di affrontare i limiti culturali della propria storia recente. Il che non significa solo avere abiurato la stagione di Renzi (quando dovrò spiegare a mio figlio cosa sia un gesto “contronatura”, non credo ci sarà miglior esempio da fare che non raccontargli di ciò che è stato Renzi per la sinistra). Significa soprattutto essersi congedati dall’inganno neoliberista per cui la fine delle classi comporta che l’unico modo per difendere gli interessi dei lavoratori sia affidandosi agli interessi degli imprenditori.

Abbiamo compreso sulla nostra pelle che l’illusione della fine delle classi era nient’altro che lo strumento per realizzare il programma di Thatcher: dove non ci sono classi, non c’è più società. Un centro sinistra che si trova (più o meno) unito sui temi del lavoro è un’ottima notizia, che speriamo serva a uscire definitivamente da ambiguità e contraddizioni culturali e politiche ormai diagnosticate con evidenza.

I principi 

Certo, questa necessaria operazione di chiarezza identitaria da parte del centrosinistra deve fare i conti con alcune complicazioni culturali che, per quanto scomode, vanno affrontate. Rivendicare la necessità della giustizia sociale è infatti cosa ben diversa rispetto a qualche tempo fa. Evitiamo di fare dei contenuti di questi referendum un pretesto per tornare novecenteschi. La politica non può permetterselo perché sono i rapporti di potere e i conflitti sociali ad essersi radicalmente trasformati. Che vuol dire allora rivendicare la giustizia sociale senza apparire nostalgici? A me vengono in mente almeno due principi generali.

Il primo, ricordarci che il neoliberismo non ha trasformato solo le forme del lavoro e i bisogni materiali, ma il suo specifico è di aver aumentato le diseguaglianze sociali a partire da una drammatica revisione di ogni tratto delle nostre vite. Il neoliberismo non è solo una trasformazione della sfera economica, ma è innanzitutto una trasformazione della sfera simbolica: di ciò che vale e di come noi possiamo farlo valere. Se continuiamo a sentirci soli, non c’è giustizia sociale che tenga. Essa implica che si re-impari la capacità di condurre battaglie che riguardino molti e non solo se stessi.

Infine, dobbiamo ricordarci che la precarietà non è solo un dispositivo economico, ma anche politico. Serve a separare le classi sociali in se stesse, mettendo contro i lavoratori e inibendo la loro capacità di istituire conflitti. Accanto all’affluenza complessiva, è questo l’altro dato a cui dovremo prestare davvero attenzione: quanti di quelli che sono stati travolti dalle trasformazioni neoliberiste del lavoro andranno a votare, stavolta?

Ci sarà davvero, dopo tanto tempo, un’unità di lavoratori precari e non precari, uniti dalla possibilità di riconquistare diritti che appartenevano a tutti i lavoratori e che abbiamo smarrito? Questa solidarietà dei lavoratori – precari e non di nuovo insieme – mi pare il cuore segreto della rinascita possibile della sinistra.

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