Il loro connotato di tecnici gli permette di sfuggire alle classificazioni politiche. Al massimo, possono acquisire il titolo di tecnici “d’area”, ma quell’area spesso è più un blocco culturale che una palla al piede partitica. Non sono né nuovi né vecchi ma appartengono all’eterno mondo del potere, che rimane sempre lì – acquattato o in prima fila – nonostante il cambio di governo. Sono le “riserve della repubblica” e ieri il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiamato in causa la più titolata di loro: Mario Draghi. Il suo nome era nell’aria: da giorni, al tavolo della crisi, veniva a seconda dell’occorrenza evocato, utilizzato come spauracchio per compattare alleanze politiche o considerato l’unica soluzione possibile per scongiurare il voto anticipato. Mattarella ha scelto la terza formula.

Nell’eventualità in cui davvero sarà governo tecnico, da ieri sera si stanno scaldando nei salotti e negli atenei anche gli altri “riservisti”, pronti ad affiancare l’ex governatore della Banca centrale europea nell’impresa di traghettare il paese oltre la pandemia, l’approvazione del Recovery fund e chissà cos’altro.

L’appellativo – “riserve della repubblica” – appartiene a una tradizione politica non dissimile dalla nostra per il numero di governi che si sono succeduti. A coniarla fu il francese Charles de Gaulle. Nel 1968 era capo dello Stato e impose al primo ministro Georges Pompidou di lasciare la carica: «Voi non siete più primo ministro, ritenetevi riserva della repubblica». Pompidou si dimette in silenzio e il suo ruolo di riserva dura poco più di un anno, perché nel 1969 sostituisce proprio il generale alla presidenza della Repubblica.

La fucina di palazzo Koch

Anche la variante italiana dei “riservisti” nasce dall’intuizione di un capo dello Stato - Oscar Luigi Scalfaro - durante la fase drammatica del passaggio tra la prima e la seconda Repubblica. Da allora si sono fissati i tratti comuni, che aiutano a riconoscere inequivocabilmente le personalità che fanno parte della categoria.

Il primo è la casa madre: il palazzo che guarda su via Nazionale e ospita gli uffici della banca d’Italia. Proprio da qui viene Draghi, ma il capostipite è stato Carlo Azeglio Ciampi. Laurea in lettere e poi in giurisprudenza alla Normale di Pisa, governatore di Bankitalia dal 1979 al 1993, nessun trascorso politico salvo una militanza giovanile nel partito d’Azione, Ciampi passò dall’ufficio di palazzo Koch direttamente a palazzo Chigi per volere dell’allora presidente Scalfaro. L’Italia attraversava una delle fasi più dure dal dopoguerra: Tangentopoli aveva spazzato via i partiti tradizionali, le stragi di mafia terrorizzavano il paese e la crisi valutaria europea aveva costretto la lira fuori dal sistema monetario europeo. Ciampi venne chiamato a formare il primo governo tecnico della storia italiana: sostenuto da una maggioranza trasversale, rimase in carica per un anno e quattro mesi in cui salvò il paese dalla bancarotta e varò la nuova legge elettorale. Come Pompidou, anche Ciampi si dimise su richiesta del presidente Scalfaro nonostante avesse ancora la fiducia delle camere e, sempre come Pompitou, successe a Scalfaro come presidente della Repubblica.

Da figlio della generazione successiva, Draghi si è formato prima in Italia e poi in America al Mit di Cambridge, ha attraversato nel ruolo di tecnico gli ultimi governi della prima Repubblica a fianco dei due ministri del Tesoro Amedeo Goria e Guido Carli ed è stato pupillo proprio di Ciampi, che ne caldeggiò la nomina a direttore generale del Tesoro. Ricoprirà il ruolo per 10 anni e altrettanti governi di orientamenti opposti, fino al 2001. A completare il cursus honorum, sei anni come governatore della Banca d’Italia fino al 2011 e poi altri otto come presidente della Bce fino al 2019.

Ecco il secondo requisito dei “riservisti” puri è l’adesione a quello che Alcide De Gasperi chiamava il “quarto partito”, quello dell’economia che significa grandi patrimoni e si traduce in legami trasversali a mondi che in superficie sembrerebbero opposti. Nessun trascorso politico identificabile, quindi, se non in ruoli terzi, preferibilmente internazionali oppure nel ministero tecnico per antonomasia, quello dell’Economia.

Il terzo e ultimo requisito, infine, è il basso profilo. A fare curriculum sono più i silenzi che le esternazioni. Il rigido rispetto dell’istituzionalità è il principale requisito del tecnico, che non ha bisogno di dichiarare perché sa cosa fare, essendo stato uno dei custodi di quello stesso potere che deve guidare da premier tecnico.

Il governo Ciampi, però, fu un governo del presidente con una squadra di ministri presi dalla politica. La formula anche anche Draghi preferisce.

Il profilo dei riservisti così disegnato, però, si attaglia anche ai due governi tecnici per antonomasia: il governo Dini del 1995-96 e il governo Monti del 2011-2013. Lamberto Dini veniva dal Fondo monetario internazionale ed era stato direttore generale della Banca d’Italia, l’unica sbavatura nel curriculum riguardava il suo ruolo di ministro del Tesoro nel primo governo Berlusconi. Fu lui a presiedere quello che viene considerato il primo governo di soli tecnici (il governo Ciampi aveva molti ministri politici) sempre per intuizione del presidente Scalfaro che rifiutò di sciogliere le camere perché l’Italia non aveva ancora superato la burrasca economica e la moneta non era ancora stabile. Lo stesso è successo a Mario Monti, presidente del consiglio del “governo dei professori” e lui per primo docente di economia con un passato prestigioso da commissario europeo per il mercato interno e per la concorrenza. La nascita del suo governo è stata un’operazione orchestrata quasi d’imperio dal presidente Giorgio Napolitano, quando dall’Unione europea arrivava insistente la minaccia di un commissariamento politico dell’Italia con la cosiddetta “troika”.

Gli altri riservisti

Se Mario Draghi somiglia in tutto e per tutto ai suoi predecessori chiamati a traghettare il paese fuori dalle fasi di crisi economica, nei palazzi si stanno scaldando anche altri riservisti pronti a servire la repubblica nei ministeri di peso.

L’altro nome che Mattarella potrebbe chiamare in aiuto è l’economista e quasi premier delle consultazioni per il Conte I, Carlo Cottarelli. Anche lui proveniente dal servizio studi della Banca d’Italia e poi direttore del dipartimento affari fiscali del Fondo monetario internazionale, sarebbe una seconda casella di bollinatura quirinalizia, capace di prendere in mano il Recovery plan abbozzato dal Conte bis e trasformarlo in un piano in grado di superare il vaglio dell’Unione europea.

Storicamente la culla dei tecnici è palazzo Koch, ma in tempi più recenti ha guadagnato riconoscimento anche il palazzo della Consulta. Poco distante e collocata di fronte al Quirinale, la Corte costituzionale è l’altra fucina da cui attingere. L’altro nome spesso ripetuto, infatti, è stato quello della ex presidente della Consulta, Marta Cartabia. Costituzionalista milanese, prima presidente donna della Corte, capace di promuovere lo svecchiamento dell’istituzione con iniziative come il tour nelle carceri, proprio lei potrebbe essere la terza fedelissima di Mattarella a scendere in campo, con il compito di prendere in mano il ministero della Giustizia, su cui di fatto si è aperta la crisi di governo.

Un altro nome che potrebbe arrivare direttamente dall’esecutivo della Bce è Fabio Panetta: ex direttore genrale della Banca d’Italia, di lui Draghi ha grande stima e potrebbe essere in prima fila per risolvere la delicata pratica del Recovery.

Altra partita delicatissima, infine, è quella della Sanità. Il turbinio di virologi e medici arrivati alla ribalta mediatica è consistente, ma l’attenzione del banchiere europeo potrebbe fermarsi sul profilo di Ilaria Capua. Notorietà anche all’estero, è l’unica ad avere una pur minima esperienza politica nelle file di un altro eminente tecnico, Mario Monti. 

La storia, tuttavia, va sempre ricordata per intero. I tecnici, per quanto abili, hanno sempre avuto vita breve nei meandri dei palazzi del governo, sempre in bilico su una fiducia che il parlamento ha sempre considerato come a tempo determinato. Il possibile esecutivo Draghi potrebbe ricalcare l’esperimento del governo Ciampi: per dirla con Mattarella, sarebbe «un governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica» e con il mandato di affrontare «l’emergenza sanitaria, economica e sociale» e poi riportare il paese alle urne.  Ciampi rimase in carica poco più di un anno, assolse al mandato di Scalfaro e assecondò la richiesta del presidente di dimettersi per indire nuove elezioni. Il risultato fu opposto a quello ipotizzato dal Quirinale, però, con la vittoria del centrodestra di Silvio Berlusconi contro la gioiosa macchina da guerra di Occhetto.

Se l’analogia regge, allora, la principale forza che dovrebbe temere l’esecutivo Draghi, almeno sulla lunga distanza, è il Partito democratico. Proprio quello che con tutta probabilità si dovrà far carico dell’onere di sostenerlo.

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