Le ricostruzioni che riferiscono di un Enrico Letta «deluso» dal no alla corsa al collegio Roma 1 sarebbero «fantasiose», frutto delle invenzioni dei giornalisti, «non credo che il Pd possa esserci rimasto male perché la mia posizione è rimasta identica». Giuseppe Conte sfoggia quell’espressione che talvolta utilizzava da premier per negare le evidenze, e a La7 racconta una versione opposta a quella che al Pd molti raccontano ma, per carità di patria, nessuno rende ufficiale: Conte aveva detto sì alla corsa per le suppletive romane. Non solo a Letta. In quel week end, fra sabato e domenica pomeriggio, ha sentito altri maggiorenti dem, a cui ha dato rassicurazioni. Ha sentito anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri.

Enrico Letta, che è deluso – checché dica Conte in tv – lascia «decantare» la scottatura per una giornata, approfittando di un volo a Parigi, programmato da tempo. Conte invece straparla per recuperare la figuraccia: la sua dal Collegio 1 di Roma è stata una ritirata dovuta soprattutto alla paura di farsi sconfiggere da Carlo Calenda. Ma anche all’accoglienza gelida che i suoi avevano riservato alla notizia della sua corsa. 

A chi chiede chiarimenti, il segretario Pd spiega che era « del tutto legittimo» che il partito più grande dell’alleanza proponesse una candidatura al presidente dei Cinque stelle, «del resto i Cinque stelle mi hanno sostenuto a Siena» e a Roma hanno di fatto attuato la desistenza a favore del giovane segretario di Roma Andrea Casu, candidato e poi eletto a Primavalle. 

Uno studio dell’Ipsos

Letta è ancora convinto dell’alleanza giallorossa. Anche perché uno studio di Ipsos, recentemente recapitato al Nazareno, e relativo a prima dell’estate – quindi prima della vittoria del Pd alle amministrative – dimostra dati alla mano che gli elettori del Pd danno per acquisita l’alleanza con i grillini. E percepiscono Renzi come uno che si è spostato a destra, e Calenda come un centrista che guarda a destra.

E tuttavia il «bidone» dato da Conte al Pd ha l’aggravante – o il pregio – di mettere in chiaro la condizione disastrosa in cui versa «il campo largo», «l’Ulivo 2.0», il «nuovo centrosinistra», insomma l’alleanza ampia che ha in testa Letta. E che invece, semplicemente, non c’è. A parte qualche noto ma sporadico episodio alle amministrative.

Per Conte, cannoneggiato e abbattuto da Calenda e Renzi, «il campo largo in realtà è un campo di battaglia». Secondo lui Calenda «sta cercando una posizione», Renzi «ha fatto un percorso involutivo spostandosi nel centrodestra», ergo «è difficile pensare a un campo largo, perché più si estende più assorbe personalismi e a quel punto la proposta di governo non è credibile».

Del resto Calenda e Renzi contro di lui non sono da meno. L’ex ministro lunedì sera ha detto che «i Cinque stelle devono scomparire, soprattutto da Roma dove hanno fatto disastri, mentre il Pd vuole tenerli in vita a tutti i costi»; il leader di Italia viva ha infierito sull’ex premier fino all’insulto, «conosco la sua proverbiale mancanza di coraggio, vive di like, teme i voti».

L’alleanza mai nata

Letta, dopo il fossato scavato con Renzi dalla legge Zan fino agli ultimi voti sulle lobby, ormai tutti con le destre, sperava almeno di includere Calenda nel «campo». Ma la storia del Collegio 1 è stata vissuta male: al Nazareno spiegano che «i veti, il metodo degli ultimatum sono semplicemente inaccettabili». E per quanto il segretario sia ancora testardamente convinto di «cucire», siamo a un passo da un bivio: costruire un rapporto solido con M5S oppure con “il centro” di Calenda. 

I vertici del Pd lettiano virano sui Cinque stelle, anche hanno capito che Conte è più fragile e indeciso di come ci si aspettava. Si è già visto in almeno tre occasioni. La prima volta nella sfumata candidatura di Nicola Zingaretti a Roma;  anche lì Conte si è rimangiato un sì dato riservatamente. La seconda, nella vicenda delle nomine Rai: l’ex premier anziché giocare in squadra con il Pd ha fatto attaccare i nomi graditi a Letta. La terza è appunto il «bidone» sul seggio di Roma 1, riservatamente accettato e poi pubblicamente declinato. Ma l’alleanza con M5s, il maggior partito in parlamento, è irrinunciabile. «Ineluttabile», per dirla con Dario Franceschini. E Letta, aprendo le porte di Montecitorio a Conte, sperava di avere un interlocutore affidabile in vista delle manovre per il Colle. 

Conte in tv ostenta visioni da condottiero, per il Quirinale spiega di «pensare a un profilo di donna», e tratta il socio dem come un secondo in grado. Come se non fosse evidente lo stato di confusione che regna nei residui gruppi parlamentari grillini. 

L’alleanza giallorossa nella mente di Letta è un mantra. Ma fuori dalla sua mente non c’è, o quasi. È stallo anche il processo di ingresso dei grillini nel gruppo S&D. Anche in quel caso il segretario era andato a Bruxelles un mese fa convinto di dover tagliare un nastro e invece si è trovato di fronte alla rivolta del suo gruppo (poi inutilmente smentita sui giornali del giorno dopo). Ma soprattutto ha potuto toccare con mano le titubanze degli eurodeputati M5S. Con la casacca da S&D, il vicepresidente del parlamento Fabio Massimo Castaldo dovrebbe rinunciare alla carica ottenuta da «non iscritto» a nessun gruppo. Oppure il Pd dovrebbe cedergli la propria vicepresidenza, in caso non andasse in porto – come sembra, ormai – la conferma alla presidenza di David Sassoli. Ma fra i dem l’eventualità è esclusa. 

Insomma, l’ingresso dei Cinque stelle nella famiglia socialista avverrà, se avverrà, dopo gennaio, e cioè dopo gli avvicendamenti delle cariche di mid term. 

Ai ripari per la corsa

Letta ora si trova a ricominciare d’accapo con l’alleato. Ma con un leader più debole di quando lo aveva incontrato per la prima volta, alla sede dell’Arel, lui fresco di elezione a segretario del Pd, l’altro fresco di defenestrazione da palazzo Chigi: una defenestrazione in buona parte dovuta alla sua sottovalutazione delle mosse di Matteo Renzi. Che in fondo è anche la ragione per cui nel 2014 Letta perse palazzo Chigi. 

Nel frattempo al Collegio 1 si corre ai ripari. Circola voce di una telefonata fra Letta e Calenda. Al Nazareno assicurano che i due si sono parlati più volte. Entro sabato, al massimo lunedì 13 dicembre, il nuovo nome andrà indicato. Enrico Gasbarra, l’ex eurodeputato indicato dai «romani» – dal Campidoglio al Pd regionale passando per la Regione – non sarebbe più disponibile. C’è chi fa il nome dell’ex cislino Marco Bentivogli. Al Nazareno si punta su Cecilia D’Elia, portavoce della conferenza delle democratiche e – non guasta – zingarettiana doc. 

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