Il viaggio di Matteo Renzi in Arabia Saudita a fine gennaio ha destato molte perplessità e dibattiti, ma alcune ulteriori rivelazioni emerse in queste ultime ore offrono l’occasione per sviluppare una più ampia riflessione.

Prima i fatti. Nel momento in cui l’Italia affrontava una crisi politica estremamente concitata, dovuta proprio alle sue scelte politiche, il senatore fiorentino decideva di recarsi a Riad al forum del Future Investment Initiative, ente governativo controllato dal fondo sovrano saudita e del cui advisory board è membro da tempo. Renzi, ospite del principe Mohammed bin Salman, ha definito l’Arabia Saudita «culla di un nuovo Rinascimento» e si è detto “invidioso” del costo del lavoro presente nel Paese, ricevendo anche per questa intervista un compenso di 80mila dollari. 

Emergono però ulteriori elementi. Secondo quanto rivelato da questo stesso quotidiano, dietro ai continui viaggi di Matteo Renzi in Medio Oriente non vi erano solamente gli incontri pubblici. Il leader di Italia Viva, infatti, sarebbe anche inserito all’interno dell’advisory board della Royal Commission che si occupa dello sviluppo della città turistica di Alula, un progetto avveniristico e fiore all’occhiello del regime del principe bin Salman.

Vi sono almeno due questioni dirimenti. La prima riguarda l’opportunità, per un politico italiano, di fare determinate affermazioni in contesti ufficiali stranieri, non nell’esercizio delle proprie funzioni parlamentari o come delegato dello stato italiano, ma rappresentando una posizione personale o della propria forza politica. 

Nel caso specifico, l’Arabia Saudita è uno stato non democratico fra i più repressivi al mondo, dove si consumano gravissime violazioni dello Stato di diritto e dei diritti umani. Il recente report della Cia ha anche sostenuto che MbS abbia approvato un’operazione “per catturare o uccidere il giornalista saudita Jamal Khashoggi”, rendendo ancora più gravi le affermazioni di Renzi. Sulla natura del regime saudita sembra incredibile, ma il 12 ottobre 2018 proprio alcuni deputati (Paita, Scalfarotto e Giachetti), passati poi con Italia viva, firmavano un'interrogazione parlamentare per agire nei confronti dell’Arabia Saudita: in due anni quella posizione sembra cambiata in modo improvviso e opportunista. In questo contesto vi è, inoltre, anche il rischio di aver esposto l’Italia agli occhi dell’amministrazione Biden, che vuole mantenere le relazioni con il sovrano saudita, ma certamente "raffreddare" quelle con il principe ereditario.

Vi è poi una seconda questione, altrettanto seria. Un esponente politico in piena attività può percepire compensi economici da autorità straniere dopo aver fornito una prestazione? Può assumere incarichi in grado di condizionarne l’operato politico e le decisioni nelle sedi istituzionali? E se si scoprisse che un parlamentare italiano è un consigliere pagato lautamente di una fondazione venezuelana presieduta da Maduro, non sarebbe forse necessario fare luce sulla questione?

Ecco, usciamo, dunque, dalle personalizzazioni e affrontiamo seriamente la necessità di disciplinare una serie di condotte, che non sono solo inopportune politicamente, ma anche gravi istituzionalmente. L’attuale maggioranza parlamentare, essendo molto ampia, è anche più frammentata ed eterogenea, ma i partiti non possono esimersi da una riforma della politica. Oltre alle necessarie modifiche alla legge elettorale, urge, infatti, rivedere la normativa sul conflitto di interessi. Si può ripartire dal lavoro già in corso alla Camera sulla proposta di legge di Emanuele Fiano, disciplinando in modo chiaro le situazioni di incompatibilità tra incarichi e i casi in cui è consentito intrattenere rapporti economici con soggetti stranieri da parte di chi esercita un ruolo pubblico in Italia. La qualità democratica del nostro paese ne avrebbe un grande beneficio.

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