Fa un certo effetto verificare il modo irridente, spesso sprezzante, con cui la stampa e gli opinionisti commentano il congresso del Pd, il cui buon esito dovrebbe invece interessare tutti, e soprattutto gli elettori progressisti del nostro paese. E in effetti i motivi di preoccupazione non mancano.
Rispetto all’idea di un congresso costituente, di una effettiva apertura verso tutte le forze progressiste e di sinistra presenti nel paese, di una analisi approfondita delle ragioni della sconfitta elettorale, abbiamo assistito e assistiamo a una progressiva e accelerata chiusura della gran parte del gruppo dirigente su sé stesso, con l’obiettivo sempre più evidente di esorcizzare ogni cambiamento reale che possa mettere in discussione gli equilibri e i rapporti di forza attuali.

La stessa sinistra interna è apparsa afona, si è divisa, e accetta senza reagire le accuse, più o meno velate, di populismo, anzi di “comunismo”, il che implica una sorta di delegittimazione preventiva che, a parte la faziosità e la risibilità dell’accusa, ci riporta ai tempi e alle categorie della Prima repubblica.

Clima di sfiducia

In sostanza c’è un clima di sfiducia reciproca, di difficoltà a parlarsi e a discutere e quindi di impossibilità di aprirsi veramente all’esterno.

Quasi che la presa in considerazione di posizioni più spostate a sinistra rispetto all’ortodossia prevalente rischi di far crollare l’intero edificio. In questa situazione anche il coinvolgimento e la partecipazione di Art. 1 rischiano di diventare problematiche, e allora il fallimento sarebbe completo.

Naturalmente il congresso dovrebbe essere libero di decidere sulla linea e sulla collocazione complessiva del Pd, e non è affatto detto che una discussione approfondita comporterebbe inevitabilmente uno spostamento a sinistra dell’asse politico. Ma finora è proprio questo confronto che è mancato e che si vuole evitare.

Sembra anche che il punto che gli “ortodossi” del partito temono maggiormente sia che si possa mettere in discussione il liberismo e la globalizzazione, per tornare a vecchie posizioni anticapitaliste. Si tratta di un arroccamento su posizioni superate da tempo.

Nessuno mette in discussione il capitalismo o il mercato, e nessuno pensa di riesumare politiche protezionistiche, per lo meno non più di quanto facciano gli Stati Uniti o l’Unione europea. Ma tutti sono ormai consapevoli, non solo a livello accademico, ma anche politico che la fase della globalizzazione liberista e finanziaria è alle nostre spalle. È singolare che questa consapevolezza manchi solo al gruppo dirigente conservatore del Pd.

Un’altra rottamazione

In ogni caso, gli argomenti di discussione non mancherebbero certo: dalla massiccia perdita di voti alla generalizzata perdita di consenso nei ceti popolari, alla impressionante impopolarità del partito verificata da tutti i partecipanti alla recente campagna elettorale nel rapporto coi cittadini, alla sfiducia generalizzata nelle soluzioni proposte, ai sempre più frequenti fenomeni di corruzione, clientelismo e familismo, alla balcanizzazione a tutti i livelli della organizzazione del partito sempre più basata su riferimenti personali e familiari, e sempre più affidata ai soli eletti. 

Anche sulla qualità dei gruppi dirigenti si può discutere: i rappresentanti democratici sono nella media di qualità superiore rispetto a quelli degli altri partiti, che sono tuttavia di livello così scadente da rendere irrilevante il confronto.

Alcuni ministri si sono rilevati capaci, ma non tutti e non sempre, anche se anche in questo caso il confronto aiuta. Le successive rottamazioni e i metodi di cooptazione utilizzati hanno consentito carriere rapide, ma protette da ogni competizione interna, con molti giovani donne e uomini spesso privi di una professione credibile per quando dovranno tornare nella società civile, e quindi insicuri e non disposti a mettersi in gioco e a rischiare.

Adesso Stefano Bonaccini propone l’idea, a mio avviso alquanto stravagante, di operare un’altra rottamazione orientata a promuovere sindaci e amministratori locali, quasi che un partito serio possa ridursi a una sommatoria di amministratori locali per quanto bravissimi.

Capisco che la proposta sia utile a fini di consenso interno per vincere il congresso, ma così non si va lontano: i problemi da affrontare a livello nazionale, europeo e globale solo così complessi e gravi da rendere la proposta evidentemente autolesionista oltre che provinciale.

Gli altri concorrenti alla segreteria, coerentemente all’atteggiamento finora tenuto, tacciono.
Concludendo, le cose non vanno bene, non vanno affatto bene. E se nelle poche settimane che rimangono non si determina una svolta significativa, l’intera operazione risulterà inutile e il declino del Pd continuerà: si può morire in tanti modi, e non è detto che lunga progressiva asfissia sia quello più indolore.

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