Nei giorni che precedono l’inizio dell’anno scolastico, sono solito ad osservare le scuole coi cancelli chiusi e le porte d’ingresso aperte; suscita sempre un certo stupore, come se stessi a chiedermi chi ci sta dentro, cosa si stia progettando, se le lettere greche appese al muro dal primo anno - e che ancora il vento non è riuscito a staccare del tutto - stiano frusciando o se è tutto perfettamente immobile.

Tuttavia quest’anno, una novità abbastanza diffusa: cartelli, lettere, settori colorati, transenne nel cortile. Perciò no, non sarebbe rimasto tutto come l’avevamo lasciato il 4 marzo, l’inconsapevole ultimo giorno di scuola.
Nel pericolo, vige l’istinto alla sopravvivenza, il riordino all’essenziale. Aprendo le scuole, l’Italia ha dimostrato, come non avveniva da tempo, la primarietà dell’istruzione, l’utilità sociale e propriamente umana.
Frequento il liceo classico di Tricase, la mia è una succursale, siamo appena duecento. Si entra tutti alle 8:20, da ingressi diversi, si esce distanziati, da scale differenti. Il gel igienizzante è diventato l’unico modo per alzarsi dal banco e fare due passi rigenerativi; non si esce più con la frequenza e la leggerezza di prima.
Sovente i nostri insegnanti rimandano alla reponsabilità personale con un’accezione implicita alla “preziosità di questi giorni”. La mia insegnante di storia dell’arte, discutendo sull’emergenza, ha considerato che la presenza a scuola è un “dono”. È un dono ogni giorno.
Uno dei romanzi della letteratura americana che prediligo nell’animo è “Furore” di John Steinbeck in cui si legge “Le leggi cambiano, ma le cose giuste restano uguali. Ognuno ha il diritto di fare quello ch’è giusto”. Ecco che il diritto allo studio si trasfigura come giusto, nella nebbia di valori ed esperienze a cui siamo legati e, in molte, oramai distaccati.
Il ritorno alla normalità è stato come tradurre una versione: uno studio lento, dalle nozioni base, via via più complesso, col fine di raggiungere un risultato più verosimile alla verità. È quando si cerca d’improvvisare ad un’interrogazione, quando si ha fretta o dissennatezza, che si commette un errore e il sistema salta.
La struttura democratica ha delle responsabilità, la macchina amministrativa dei diritti costituzionali comporta dei sacrifici. Il Sars-Cov-2, come lo chiameremmo in chimica, nel nome scientifico, è uno di quegli imprevisti che le epoche e la storia propongono all’umanità.

Così, tra le incertezze del vaccino, del “ci abbraccieremo presto” - sì, ma quando? -, del numero dei contagi e dei tamponi, la cultura si afferma quale sintesi essenziale e universalmente necessaria per lo spirito collettivo: la scuola è uno spazio in cui si incidono le proprietà dei valori e si trascrive la ricerca di ciò che non potrà cambiare mai, dell’affetto, della fiducia, della speranza, del rispetto.
Il virus è divenuto, tragicamente, uno strumento educativo. Se non ci si può più scambiare il vocabolario, entrare in classi o settori diversi dal proprio, portare un dolce il giorno del compleanno, solo la cultura potrà dare un senso a questa fatica.
Si sta insieme; non prossimi, ma vicini. E poi, con la mascherina, si può anche masticare il chewing-gum durante la lezione.

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