La nuova via della Seta (Yī dài yī lù), lanciata da Xi Jinping nel 2013, è la principale strategia di politica estera della Repubblica popolare cinese. Più che di un piano organico, si tratta di una “parola d’ordine” dal fascino evocativo riconosciuto in tutto il mondo, con la quale Pechino – approfittando anche delle incertezze di Barack Obama e del disastro della politica estera di Donald Trump – ha lanciato investimenti infrastrutturali importanti soprattutto nel Sud-est asiatico, in Asia centrale e in Africa, (ma anche nei paesi dell’Europa centro-orientale riuniti nel gruppo 17+1), grazie ai quali riassorbire una parte del colossale eccesso di capacità produttiva delle sue aziende di stato e affermarsi come una “potenza responsabile” i cui prestiti per lo sviluppo intervengono senza porre condizioni ai paesi destinatari, in competizione con le istituzioni di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) a guida statunitense nate dopo la Seconda guerra mondiale.

La Yī dài yī lù è sinonimo anche di investimenti produttivi, come la joint-venture appena confermata tra il numero uno dell’automotive cinese Faw e la statunitense Silk Ev, per fabbricare a Reggio Emilia un’auto elettrica cinese d’alta gamma (1.500 nuovi posti di lavoro stimati).

Lo stop subìto da alcuni progetti importanti e i contraccolpi del coronavirus sull’economia cinese hanno rallentato ma non fermato l’avanzata della nuova via della Seta. Solo per citare un esempio, la settimana scorsa è stata inaugurata la ferrovia Lagos-Ibadan, 157 chilometri a una media di 150 km/h, costruita interamente dalla China Civil Engineering Construction Corporation (Ccecc)e finanziata dallaExport-Import Bank of China (una compagnia e una banca di stato).

Agli obiettivi economici della nuova via della Seta si accompagnano quelli geopolitici, ovvero espandere l’influenza di Pechino nei paesi più sensibili alle sirene dei suoi investimenti.

Effetto gialloverde

In questo contesto, l’Italia è stata avvicinata ai tempi del governo giallo-verde, nel 2019, quando l’allora vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini, non si era ancora convertito all’atlantismo duro e puro. L’attivismo e l’ammirazione per la Repubblica popolare cinese di un sottosegretario al ministero dello sviluppo economico in quota Lega, Michele Geraci (dopo la sua breve esperienza governativa rientrato in Cina, dove insegna presso la Nottingham University di Ningbo), contribuì a spianare la strada alla firma, nel marzo 2019, del memorandum d’intesa Italia-Cina sulla nuova via della Seta.

Quel clamoroso atto di insubordinazione politica agli Stati uniti (che risposero manifestando ufficialmente la loro disapprovazione), non ha prodotto i risultati sperati in termini di apertura dei mercati cinesi alle merci del Belpaese che ci si sarebbe potuti attendere in cambio di un riconoscimento politico a cui Pechino teneva particolarmente.

L’anno scorso l’interscambio bilaterale ha registrato poco meno di 13 miliardi di esportazioni italiane in Cina a fronte di 32 miliardi di importazioni cinesi. Quelli cinesi restano mercati marginali per un paese esportatore come l’Italia.

Secondo l’ex ambasciatore italiano a Pechino, Alberto Bradanini, quel memorandum «per Pechino ha avuto una certa valenza politica, perché siamo stati l’unico paese del G7 ad aver dato ufficialmente il benvenuto alla nuova via della Seta, ma nel complesso si è tradotto in un elenco piuttosto vago di cose che non si faranno mai», se si eccettua la joint venture tra la Danieli di Udine, colosso mondiale nella produzione di impianti siderurgici, e un partner cinese per la realizzazione di un impianto integrato, dalla miniera al laminatoio, del valore complessivo di 1,1 miliardi di euro, in Azerbaigian.

Insomma i governi Conte non hanno saputo far seguire alle parole i fatti. Secondo Bradanini, l’esecutivo Draghi dovrebbe riallacciare il dialogo con Pechino «su commercio e investimenti e provare a riequilibrare un interscambio commerciale che ci penalizza fortemente». Per Bradanini, che presiede il Centro Studi sulla Cina Contemporanea, le tensioni tra la Cina e gli Stati uniti non dovrebbero essere di alcun impedimento per un’operazione di questo tipo, «perché gli Usa non possono opporsi a un aumento delle esportazioni italiane in Cina, che rientra nei nostri legittimi interessi nazionali».

Nei mesi precedenti e immediatamente successivi alla firma del memorandum s’era fatto un gran parlare della possibile acquisizione da parte cinese di porti italiani (Venezia, Genova, Trieste). È finita col passaggio di quest’ultimo ai tedeschi che – è il timore di Bradanini – in questo modo continueranno a favorire il loro scalo di Amburgo e quello della vicina Rotterdam nei commerci con l’Oriente.

Nell’aprile 2019 il ministero delle Politiche agricole firmò un’intesa con un importatore grazie alla quale le arance Moro e Tarocco della Sicilia di Geraci sono disponibili sugli scaffali virtuali di Alibaba. Una dolce consolazione per un rapporto che, malgrado il memorandum, non è mai decollato.

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