Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri deve usare molte, moltissime parole per spiegare, più agli alleati che alle opposizioni, che c’è Mes e Mes. Ovvero che il sì del governo italiano alla riforma del Fondo salva stati non si traduce automaticamente nella richiesta di utilizzo della linea di credito pandemico di quel Fondo. La riforma deve andare avanti, si sforza di spiegare il ministro, c’è un accordo da onorare. Il sì deve arrivare lo stesso pomeriggio alla riunione dell’Eurogruppo, i ministri dell’economia dell’area euro. Poi, il 9 dicembre, il parlamento voterà le comunicazioni del premier Giuseppe Conte. Il giorno dopo l’Ecofin, i ministri di tutti gli stati membri, darà il via libera definitivo. Ma per alzare il prezzo del loro sì, i Cinque stelle mischiano le due cose. «La riforma del Mes è cosa distinta rispetto alla scelta di utilizzare il Mes sanitario», ripete Gualtieri nel corso dell’audizione online alle commissioni Bilancio, Finanze e Unione europea di camera e senato, «Su tale questione esistono posizioni diverse nel parlamento e nella maggioranza e la scelta dovrà essere condivisa dalla maggioranza e approvata dal parlamento». Ma sul Mes pandemico i Cinque stelle si sono incartati; e ormai a palazzo Chigi e al Nazareno, la sede del Pd, sventola bandiera bianca.

Questione chiusa

La questione è chiusa, anche se i dem continuano ad agitarla. Sul Corriere della sera il premier Giuseppe Conte ci ha messo sopra una pietra tombale: «Il Mes non ci serve, l’Italia non ne ha bisogno», dice a chi lo intervista. Salvo poi la mattina far circolare la smentita di rito delle «fonti di Palazzo Chigi». Ma contano i fatti, e nel governo i fatti sono questi: Gualtieri è altalenante; il Pd chiede il Mes; ma finché il ministro della salute Roberto Speranza non stila un piano per il suo utilizzo discuterne non si può. Per ora Speranza ha preparato il piano per il Recovery fund. Se non basteranno i soldi, si vedrà.

Così, cedendo ai Cinque stelle, Conte si è di nuovo messo in sicurezza. In commissione i dem sono taciturni. Il premier andrà alle camere il 9 dicembre per farsi votare il sì alla riforma. E non ha nulla da temere: l’accordo c’è. Basta ascoltare Vito Crimi, ancora reggente M5s: guardacaso sono le stesse di Conte, quelle smentite: «L’Italia non ha alcuna necessità» del Mes, «Al contempo non impediremo l’approvazione delle modifiche al trattato». Da qualche grillino arrivano le ultime critiche alla riforma del trattato. Ma la scena è quella che in grande cronista politico degli anni 50 definiva sconsolatamente «recita in famiglia».lla riunione di maggioranza prima dell’audizione non c’è stata «nessuna particolare spaccatura», rivela il dem Piero De Luca, «Al prossimo vertice si definiranno i dettagli della posizione di maggioranza. Ma l’Italia manterrà gli impegni presi in Europa».Tradotto: il testo della mozione, e il discorso che verrà pronunciato dal premier, saranno abbastanza generici da non costringere i Cinque stelle a perdere la faccia. Stessa cortesia verso il Pd, che pure ha rischiato la beffa di trovarsi un testo che escludeva esplicitamente e definitivamente l’utilizzo del Mes sanitario. «Troveremo un equilibrio», dice De Luca.

La diffida immaginaria

A destra sarà più difficile «trovare un equilibrio». La maggioranza insiste sul fatto che la riforma fu avviata dall’ultimo governo Berlusconi. Forza italia è favorevole, Lega e Fratelli d’Italia no. Il leghista Claudio Borghi avvisa il ministro: «Io la diffido ufficialmente dal dare il suo assenso alla riforma del Mes perché è privo di mandato», minaccia addirittura responsabilità penali. Gualtieri replica a brutto muso («osservazioni fuori luogo») ma ammette che l’ok finale il parlamento potrà darlo solo quando saranno noti i punti che ora non si conoscono (sistema bancario, valutazione sui rischi, l’introduzione sul common backstop, cioè un meccanismo di messa in sicurezza delle banche).

Un Mes sì e un Mes no

Nei Cinque stelle resta una coda di polemiche interne. Al Senato arriva l’annuncio di qualche no, ma c’è tempo per mettere i voti in sicurezza. Anche per Stefano Fassina (Leu) le modifiche «aggravano il rischio di ristrutturazione del debito pubblico e connesso programma della Troika» e il ministro deve «tener conto delle posizioni emerse nell’audizione» e «chiedere una sospensione del processo di approvazione della riforma», il cui progetto risale a prima della pandemia, quindi a un’altra era politica ed economica dell’Unione. Gualtieri tira dritto: è convinto di aver ricevuto «un mandato estremamente chiaro», assicura che la riforma è migliorativa del trattato in vigore e che il rischio «greco» – le condizioni capestro che la Troika nel 2015 impose al paese – è fantasia. La conclusione dell’iter arriverà nel 2022 e passerà per la firma del nuovo trattato e per la ratifica dei parlamenti nazionali.

Vanno in archivio anche le riflessioni del presidente del parlamento europeo David Sassoli sull’opportunità di rendere il Fondo uno strumento comunitario e non più intergovernativo. Secondo alcune indiscrezioni quelle “aperture” avevano fatto saltare i nervi al segretario del Pd Nicola Zingaretti, che le aveva definite «sparate», proprio perché avevano ridato spago alle critiche del M5s, con il rischio di dover riaprire un accordo già chiuso: un Mes sì e un Mes no.

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