Il conflitto di interessi è il “sempreverde” degli ultimi quindici anni di politica italiana: tutti i governi hanno provato a modificare la legge Frattini, nessuno c’è ancora riuscito. Ora è l’esecutivo Conte II a tentare l’impresa, con un disegno di legge il cui testo base verrà approvato il 6 ottobre in commissione Affari costituzionali alla Camera. L’obiettivo è quello di approvare la legge entro novembre, con entrata in vigore prevista per il 1° luglio 2021.

L’attuale formulazione è frutto della sintesi tra le varie proposte di legge presentate in commissione, ma la paternità dell’iniziativa è del Movimento 5 Stelle e in particolare dal presidente della commissione, il grillino Giuseppe Brescia. Una volta ottenuto il taglio dei parlamentari, la legge sul conflitto di interessi è considerata il passo successivo per “rivoltare il parlamento come un calzino”, ma anche la contromossa del Movimento rispetto al pacchetto di riforme costituzionali presentate dal Partito democratico.

Un vecchio cavallo di battaglia

La legge sul conflitto di interessi è stata il cavallo di battaglia del centrosinistra quando il nemico da battere era Silvio Berlusconi con le sue televisioni: la discesa in politica del Cavaliere nel 1994, in assenza di una normativa specifica, aveva per la prima volta sollevato la questione in Italia.

Eppure l’unico a riuscire ad approvare una legge organica è stato proprio Berlusconi: durante il suo secondo governo, nel 2004, passò alle camere la legge Frattini, che è tuttora in vigore. All’epoca, il testo venne duramente criticato non solo dalle opposizioni ma anche dal Consiglio d’Europa, perché la legge non prevede l’ineleggibilità di chi si trova in un potenziale conflitto di interessi, ma solo l’incompatibilità ad assumere incarichi diversi da quelli di governo e ad adottare atti da cui può derivare «un’incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio».

Inoltre, tra le ipotesi di incompatibilità e di conflitto di interessi non è compresa la mera proprietà di un’impresa. Da ultimo, la legge qualifica come causa di conflitto di interessi il «danno per l’interesse pubblico», un concetto dai contorni nebulosi che esulerebbero dalla competenza dell’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, che vigila utilizzando strumenti di analisi economica.

Il testo base Brescia si propone di introdurre ciò che la legge Frattini (che verrà abrogata) non contiene: delle previsioni rigide di incompatibilità e un regime sanzionatorio. Il testo è stato concordato con il contributo dell’Anticorruzione, che assume nuove competenze, e dell’Antitrust, che continua a essere l’autorità deputata a valutare i potenziali conflitti di interesse.

Quando si è incompatibili

Se la legge Frattini valutava il conflitto di interessi solo dei membri del governo, la nuova legge dispone che l’Antitrust vigili su tutti i «titolari di cariche politiche», quindi i membri del governo, delle regioni, i parlamentari e i sindaci e giunte di comuni con più di 100mila abitanti, «nonché il presidente e i componenti delle autorità indipendenti». Il conflitto di interessi sussiste quando il titolare di una carica pubblica è «portatore di un interesse privato idoneo a compromettere l’imparzialità o ad alterare le regole di mercato relative alla libera concorrenza».

Le incompatibilità per i titolari di una carica di governo sono di due tipi: generale e patrimoniale. Quella generale prevede che non si possano ricoprire altre cariche pubbliche, esercitare compiti di gestione di enti di diritto pubblico, imprese o società pubbliche o private. Inoltre, l’eletto non può esercitare alcun tipo di impiego pubblico o privato né svolgere attività professionali, anche se gratuite, in favore di soggetti pubblici o privati.

L’incompatibilità patrimoniale, invece, rende le cariche di governo nazionali incompatibili con la proprietà, il possesso o la disponibilità «da parte del titolare della carica, del coniuge o dei parenti entro il secondo grado, ovvero di persone stabilmente conviventi» di partecipazioni superiori al 2 per cento del capitale sociale di un’impresa che svolga la propria attività in regime di autorizzazione o concessione rilasciata dallo stato, dalle regioni o dagli enti locali; sia titolare di diritti esclusivi o che operi in regime di monopolio; operi nei settori della difesa, del credito, dell’energia, delle comunicazioni, dell’editoria, della raccolta pubblicitaria o delle opere pubbliche o svolga altra attività di interesse nazionale.

Il nuovo testo base è stato ammorbidito rispetto alla prima bozza presentata a luglio, invertendo il regime della decadenza: il politico decade dall’incarico con cui è incompatibile e non più dalla carica di governo.

L’ineleggibilità

Le nuove norme rendono ineleggibili alla carica di parlamentare i direttori e vicedirettori di giornali nazionali che hanno esercitato l’incarico nei sei mesi prima dell’accettazione della candidatura e chiunque abbia incarichi di natura dirigenziale in società o imprese che abbiano concessioni statali o da enti pubblici.

I magistrati, inoltre, saranno ineleggibili per 2 anni (e non più per soli 6 mesi) nelle circoscrizioni sottoposte alla loro giurisdizione. Alla cessazione della carica, i magistrati eletti o titolari di cariche di governo non potranno tornare nei tribunali, ma saranno collocati in ruolo amministrativo.

Le sanzioni

La riforma introduce il regime sanzionatorio che mancava nella legge Frattini. Entro 20 giorni dall’assunzione di una carica di governo, il titolare deve comunicare all’Antitrust le sue cariche in società; la dichiarazione dei redditi; i dati relativi ai beni immobili, alle attività patrimoniali e alle quote di partecipazione in società; eventuali accordi di lavoro validi dopo la cessazione della carica pubblica.

Le dichiarazioni vengono rese pubbliche sul sito dell’Autorità, che entro trenta giorni accerta che siano vere e complete. La mancata presentazione viene punita con la reclusione da 2 a 5 anni. Inoltre, l’Autorità applica una sanzione amministrativa «da un minimo di 10.000 euro a un massimo di 100.000 euro quando, anche in tempi successivi, entro un anno dalla fine del mandato, emergano violazioni degli obblighi dichiarativi».

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