«Mi contestano di aver fatto la carta d’identità a un bambino di quattro mesi. Era arrivato a Riace il 6 aprile del 2016 con la sua mamma. Come comune li avevamo inseriti nel registro anagrafico. Erano cittadini nostri, la prefettura me li aveva mandati per il progetto dei Cas, i Centri accoglienza straordinaria. Ma il pm mi contesta che mancava il permesso di soggiorno. Ma quel bimbo aveva urgenza di ricevere cure e senza carta d’identità non poteva avere la tessera sanitaria. Ho fatto anche un’altra carta di identità, a Becky Moses, una ragazza che aveva perso i documenti e temeva di essere rispedita indietro. Le ho fatto la carta. Lei è andata alla baraccopoli di San Ferdinando, a Rosarno. Nel gennaio del 2018 è bruciata in un incendio. Perché non mi contestano anche questo? Perché Becky è morta in un campo, e qualcuno era responsabile di quel posto. Ecco perché non vogliono fare quest’altro processo. Quella carta non è bruciata. L’ha trovata una giornalista e me l’ha consegnata. Un segno».

Orientarsi fra le risposte di Mimmo Lucano non è facile. Ma a disorientare di più sono le sue domande. Sessantadue anni, per dieci sindaco di Riace, cittadina di 2mila abitanti nella Locride, con lo spopolamento scolpito nel destino. Con lui Riace diventa invece per anni un modello di accoglienza.

Per anni il “modello Riace” è raccontato in giro per il mondo. Nel 2009 il regista Wim Wenders si trasferisce lì per girare il suo film Il volo. Nel 2010 Lucano è terzo nella World Mayor, concorso organizzato da City Mayors Foundation sui migliori sindaci. Nel 2016 è tra i 50 uomini più influenti del mondo dalla rivista Fortune.

L’anno dopo riceve il premio per la Pace Dresda. Quello dopo ancora, siamo al 2018, è arrestato con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Domiciliari, obbligo di dimora via dalla sua città. In Italia è iniziato il tempo di “prima gli italiani”. In quel periodo ministro dell’Interno è il leghista Matteo Salvini. Ma i guai giudiziari di Mimmo Lucano risalgono al governo precedente, al Viminale c’è l’uomo d’ordine del Pd Marco Minniti. Il prossimo 30 novembre Lucano sarà di nuovo a processo.

Sulle spalle una quindicina di capi di imputazione, truffa, abuso d’ufficio, associazione per delinquere. In aula si confronteranno i testimoni di due Riace opposte: quella concreta dell’accoglienza di Lucano, raccontata da lui stesso nel libro Il fuorilegge (Feltrinelli); e quella immaginaria di alcuni magistrati.

Abbiamo incontrato Lucano nella sede della sua associazione Città Futura a Riace, la taverna Donna Rosa. La conversazione è poi proseguita in un evento Facebook organizzato da Domani, insieme a Enrico Fierro.

Lucano, qual era la sua Riace?

Era una città aperta alla conoscenza. Se non fosse stato così, l’accoglienza a Riace sarebbe stata un’esperienza sul piano formale coerente con il protocollo: ti pagano, ti danno i servizi. Invece no, è stato un modello che ha scosso le coscienze. Ma anche un’opportunità per il territorio, non solo per gli immigrati. Accoglienza diffusa, ognuno nelle case che prima erano degli emigranti, non un centro in cui stanno tutti assieme e condividono i servizi igienici. No, ognuno alla sua casa. È una strategia di inclusione, il territorio diventa protagonista. Perché la nostra è una piccola comunità globale in cui si ridà il senso della vita quotidiana.

Ma le vengono contestati reati. Ha sbagliato qualcosa?

Sono umano, potrei aver sbagliato. Ma è sull’integrazione che si gioca la partita. Si è preteso che accogliessi le persone e dopo sei mesi, o un anno, le cacciassi. E io ho disatteso queste pretese. Anzi non le ho neanche disattese, ho spiegato che se come sindaco mi fossi attenuto a queste regole dopo sei mesi un bambino, per esempio, lo avremmo mandato via dalla scuola. Ma che senso ha fare progetti così su persone che hanno già perso tutto? Se lo avessi fatto non sarei incorso in un reato penale. Ma la mia coscienza?

Avete disatteso le regole?

Abbiamo dimostrato che le linee guida da seguire erano molto carenti. A Riace con 35 euro pro capite si può fare la fase ordinaria dell’accoglienza ma anche quella dell’integrazione. Ci siamo inventati un frantoio e altre attività, come l’agricoltura biologica sociale, basate sulle risorse del territorio. In questo modo i soldi servivano per l’accoglienza ma anche per arricchire la realtà locale. Nell’accoglienza non basta essere abili ragionieri. Riace forse, vedremo, magari sulla carta non corrispondeva del tutto, ma nella realtà ha suscitato l’interesse di tutto il mondo.

Alla fine allora è lei a sentirsi truffato?

Lo stato con me è stato vigliacco. Le racconto una cosa. Un anno il prefetto Mario Morcone mi chiama e mi dice che deve mandarmi 500 persone perché il ministro dell’Interno Roberto Maroni non vuole che i rifugiati vadano al nord. Signor prefetto, dico io, ma Riace superiore ha 500 abitanti. Tutti questi pullman, come li prenderà la gente? Ma comunque mi sono dato da fare. Ho fatto un protocollo d’intesa con i comuni di Caulonia e di Stignano, abbiamo ripartito le persone. Lo stato mi chiede numeri altissimi, e li chiede a me perché sa che sono sensibile a quella richiesta. Però poi mi punisce. Il colonnello che mi interroga mi dice «sindaco li poteva tenere o no?».

Ma che significa? A settembre mi chiedi di accogliere a scuola un bambino, e poi a febbraio lo devo mandare per la strada? E il colonnello dice: questi non sono fatti che riguardano lei, qualcun altro ci doveva pensare. E chi ci pensava? E il gip che mi dimette da sindaco mi dice: «Non se la prenda, so tutto di lei, sono due anni che lei è sotto intercettazione. So che è una persona per bene». Signor giudice, ma voi mi state arrestando, che coerenza c’è in queste parole?

Come è nato il modello Riace?

La mia storia è quella di tanti, credo, in Calabria, negli anni Settanta. Eravamo organizzati in movimenti, mai con un partito, sfiorando sempre il Pci. Ma parlo di quando nel Pci c’erano persone come Pietro Valerioti, che voleva fare le cooperative nella piana di Gioia Tauro per contrastare il dominio delle famiglie di mafia nella filiera degli agrumeti. Per quello nel 1980 l’hanno ammazzato. Il sud è pieno di figure così. Mi ha parlato di lui Peppino Lavorato, uno che non si è mai tirato indietro. Poi ho incontrato monsignor Giancarlo Bregantini.

Se non ci fosse stato lui in quegli anni la mia Riace non sarebbe nata. Veniva con la golf di seconda mano senza scorta, il volto sofferente. Mi scuoteva la coscienza. Quando arrivò, trasferito dal suo Trentino, era stato appena scomunicato il mio professore di religione, Natale Bianchi, un attivista dei Cristiani per il socialismo. Le parrocchie avevano diramato un comunicato dove era scritto: scomunicato per comportamenti sovversivi. Perché nella sua parrocchia aveva scritto: «Cristo non si è fatto i cazzi suoi». Parlava dell’omertà. Quando arriva Bregantini esordisce così: «Non uno ma cento, mille Natale Bianchi». Mi si accende un faro.

Nel 1997 c’è il primo grande sbarco dei curdi a Badolato.

Avevo sentito parlare di uno sbarco pochi giorni prima del Natale, e sono andato. Volevo capire. Avevo sempre pensato: che senso ha fare i programmi politici a livello locale quando la gente dai paesi se ne va? Le nostre erano aree di forte emigrazione, di identità che si perdono. Il mio mondo è quello dei braccianti, i pastori, gli artigiani. Tutta l’azione a Riace muove da queste sensibilità.

A Badolato incontrato Dino Frisullo, che mi racconta dei curdi. E Tonino Perna, un professore dell’università che voleva fare uno dei primi progetti non governativi. Per me era come una lezione, non ha senso l’impegno politico se non tiene conto del luogo. Perna diceva che dovevamo ripartire intrecciando le culture nostre e degli immigrati. Ma la cosa straordinaria era che quelle parole si trasformavano in concretezza.

Insomma lì le è nata l’idea?

Qualcuno ha detto che ho seguito un modello dei rom perché da noi c’è la festa di San Cosma e San Damiano, che offrivano cure gratuite a chi ne aveva bisogno. Non ho seguito nessun modello, ho avuto però la percezione che bisognava non perdere l’occasione. Riace è stata un’avanguardia perché ha aperto le sue porte, come diceva Bregantini.

Ho fatto il sindaco così. Pensando anche a Enrico Berlinguer. Lui diceva: chi ha poco paghi poco, chi ha molto paghi molto, chi non ha niente non deve pagare niente. Ogni volta che mi mettevo a discutere del sistema tariffario, per me era come se Berlinguer mi stesse ascoltando. Era questo il senso della battaglia per non pagare l’acqua. Ma dicevo ai cittadini: non vi dovete confondere, non pagate non per poca considerazione del comune ma per un fatto di democrazia e di uguaglianza.

Oggi Riace è retta da un commissario. Il nuovo sindaco leghista è risultato ineleggibile. Ma perché lei è stato sconfitto alle urne?

È necessario che si capisca quello che è successo. Sono stato eletto per tre volte consecutive. Ma nel 2019 c’era il processo, le misure cautelari. La paralisi delle attività di accoglienza. Non potevo fare campagna elettorale. Un’aria politica in tutta Italia, che tirava già dai tempi in cui c’era Minniti.

Era criminalizzata l’accoglienza, l’immigrazione, la solidarietà. Dappertutto si sentiva solo propaganda di prima gli italiani. A Riace è venuto anche Salvini, ci teneva molto a distruggere questo simbolo. Ma dell’amministrazione leghista cosa resta? La prima cosa che ha fatto il nuovo sindaco è togliere i simboli della nostra rivoluzione culturale. Credo che le prossime elezioni saranno più libere. Oggi sono sicuro che le cose sono cambiate. E anche questo per me è una soddisfazione. Per alimentare una speranza, non solo per Riace.

Vuol dire che sta pensando di ricandidarsi?

Ci sto pensando. Sono convinto che posso dare un contributo a un’idea, quello che Riace ha rappresentato molto per tanti.

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