Come una pignatta a una festa di carnevale. Il ruolo di Vito Crimi nelle riunioni dei gruppi Cinque stelle di Camera e Senato, nelle assemblee congiunte di tutti i parlamentari, negli appuntamenti riservati ai capigruppo è sempre lo stesso.

Il capo politico reggente deve fungere da parafulmine: Crimi ha pagato il ritardo che il suo Movimento ha imposto al paese per interpellare gli attivisti durante le consultazioni anche in televisione, uscendo dal salotto di Giovanni Floris con le ossa rotte.

Prossimo all’addio

«Lui è uno che incassa, non è tipo da attacco», dice chi lo conosce bene. E quello di vittima sacrificale sarà probabilmente l’ultimo ruolo di rilievo che ricoprirà all’interno del Movimento: già da mesi il capo politico è messo in discussione dai parlamentari per l’assenza di legittimazione, dopo essere capitato alla guida del Movimento quasi per caso in seguito al passo indietro di Luigi Di Maio. Il suo incarico giunge al termine, e con lui l’ultimo periodo di compattezza almeno apparente del Movimento.

Quella che si sta concretizzando in questi giorni nel corso dei continui incontri dei diversi sottoinsiemi che formano il M5s è una spaccatura sempre più istituzionalizzata. Non c’è occasione in cui non riaffiori la contrapposizione tra i “Di Maio boys”, come ormai vengono chiamati dai parlamentari, e i ribelli. In mezzo, a cercare di spiegare la contorta linea del partito in questi giorni, c’è sempre lui, Crimi, affiancato al Senato dal capogruppo Ettore Licheri e dal ministro, una volta stimatissimo dai senatori, Stefano Patuanelli. Eppure, dice uno dei parlamentari intenzionati a negare la fiducia al governo Draghi, «sarebbe stato meglio se si fossero dichiarati incapaci di intendere e di volere quando sono venuti dopo le consultazioni». I tre hanno spiegato che al tavolo con il presidente incaricato a gestire la trattativa era stato solo Beppe Grillo, e loro non sapevano che il fondatore avrebbe insistito solo sul superministero per la Transizione. Anche i ministri, solo quattro per i pentastellati, con la perdita di posti pesanti, sono stati tutti decisi da Draghi, senza che Crimi ne fosse informato. E l’ex capo del Mise che confessa di aver giurato come nuovo ministro dell’Agricoltura solo perché Crimi gli avrebbe chiesto di farlo. Insomma, in un Movimento in cui ormai gli insulti volano anche in direzione del fondatore, tutti guardano già al dopo-Crimi, che però rischia di essere solo il riconoscimento ufficiale di una crisi che si muove lungo fenditure troppo profonde per essere colmate. Quando infatti si voterà per la composizione del nuovo organo collegiale che andrà a sostituire il ruolo del capo politico (e quindi Crimi), il conflitto si trasferirà dai gruppi parlamentari al nuovo direttivo, verosimilmente formato da tutti quelli che sono ormai a tutti gli effetti dei capicorrente.

Le fazioni

A inserire un nuovo elemento nella faida interna arriva nel weekend il post di Davide Casaleggio, che si inserisce perfettamente a metà tra i ribelli e i governisti: l’apertura sull’astensione durante il voto di fiducia proposta dal presidente di Rousseau offre una scialuppa di salvataggio agli indecisi, per cui ora sarà più facile affrontare la giornata in aula senza rischiare l’espulsione. Si assottigliano dunque le file dei dissidenti, ma Casaleggio è sempre più inviso anche ai governisti, che considerano il post un’apertura al di là delle competenze di quello che ai loro occhi dovrebbe essere soltanto un fornitore di servizi. È a quest’apertura che potrebbero però appigliarsi alcune figure di rilievo che nelle ultime ore hanno manifestato la propria criticità rispetto al sostegno del M5s al governo Draghi ma verosimilmente non decideranno di voltare le spalle a Grillo. Tra loro si collocano i senatori Barbara Lezzi e Nicola Morra, che già guardano a un ruolo nel nuovo organo, su cui hanno buttato un occhio anche l’europarlamentare Dino Giarrusso e la vicepresidente del Senato Paola Taverna.

Se a questo gruppo si aggiunge una figura ingombrante come Di Maio e si considera che il meccanismo deciso agli Stati generali prevede che ci sia una rotazione regolare del primus inter pares che presiederà l’organismo, la crisi strutturale è evidente. Di Maio potrebbe però decidere, invece di investire il suo tempo in un lungo conflitto di posizione nel direttorio, di portarsi al fianco Giuseppe Conte, attualmente disoccupato e soprattutto senza nessuna tessera politica in tasca. Perché il simbolo del Movimento 5 stelle, attualmente, è solo in comodato d’uso al capo politico e a Casaleggio, ma ufficialmente è ancora di proprietà di Beppe Grillo. Che a un certo punto potrebbe anche decidere di assegnarlo a qualcun altro.

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