«Tra Trump e Biden? Innanzitutto gli Stati Uniti». La risposta del ministro degli Esteri ed ex capo politico del Movimento 5 stelle intervistato nelle scorse settimane dalla Stampa riassume al meglio la situazione in cui si trovano i vertici del partito oggi, restii a esporsi sull’esito delle elezioni americane. E se negli altri schieramenti è partito il tifo per Joe Biden o Donald Trump, a seconda dell’inclinazione, i volti più in vista del Movimento si sono ben guardati dall’esprimere pubblicamente il loro appoggio, tanto che il viceministro degli Esteri Manlio Di Stefano è arrivato ieri a definire addirittura «stupido» da parte del Pd sostenere Joe Biden oltreoceano. Un duro attacco che non è rimasto senza replica. «Vogliamo sperare che le offese del sottosegretario degli Esteri Di Stefano agli alleati di governo, cioè a noi del Pd, siano dovute alla profonda stanchezza di questa notte elettorale passata in bianco», ha risposto a stretto giro il responsabile Esteri del partito, Emanuele Fiano, che ribadisce anche il «giudizio critico della visione molto unilaterale» della politica estera del Movimento.

Un rapporto tempestoso

Fin dalla loro fondazione le affinità dei grillini si erano rivelate in realtà di stampo molto più terzomondista (restano indimenticati i viaggi di Alessandro Di Battista in America centrale e quelli di Manlio Di Stefano e Vito Petrocelli in Venezuela) che vicine alle alleanze geopolitiche più consolidate di Roma. Poi la vittoria di Donald Trump nel 2016, interpretata quasi subito da Beppe Grillo come sconfitta dell’establishment anche oltreoceano, ha fornito al Movimento l’alibi per riappacificarsi con Washington, anzi per celebrare il grosso «V-Day» che Trump aveva inflitto alle élite americane. Eppure, quando la Farnesina è finita in mano a Di Maio con la nascita dell’esecutivo Conte II, l’amministrazione Trump aveva gettato uno sguardo quantomeno scettico sulla gestione del ministero degli Esteri: a preoccupare il governo americano era soprattutto l’apertura verso la Cina con la sottoscrizione del memorandum d’intesa sulla Via della Seta. Un timore non dissipato dal tempismo risicato con cui l’Italia ha deciso di supportare il candidato scelto dai paesi occidentali per la presidenza della World intellectual property organization, l’ente internazionale per la protezione del diritto d’autore. Solo all’ultimo, infatti, il governo italiano ha espresso il proprio sostegno al candidato di Hong Kong contro l’avversaria cinese. Anche durante la prima fase della pandemia il filo diretto tra Roma e Pechino non si è interrotto per forniture di dispositivi di protezione ma anche per la possibilità, offerta da Huawei, di utilizzare un server cinese per raccogliere i dati sanitari degli italiani. Ancora oggi, a parlare con il senatore della Commissione Affari esteri Alberto Airola, «le attenzione vanno più verso i paesi con cui i rapporti sono più proficui. Dall’amministrazione Trump abbiamo ricevuto solo dazi e tasse aggiuntive». Insomma, gli interessi del Movimento sono rivolti altrove: «Si lavora sul medio oriente o sulle tensioni in Nagorno Karabakh. Considerando le potenze che potrebbero essere coinvolte se la situazione esplodesse, ci sembra giusto concentrarci su quella situazione».

Inversione di rotta

La musica è però decisamente cambiata negli ultimi tempi. Sempre nell’intervista a La Stampa, il ministro Di Maio diceva che «con l’amministrazione Trump si lavora molto bene», e che con il segretario di Stato Mike Pompeo si è creato un rapporto di amicizia. Risale soltanto a fine settembre l’ultima visita dell’«amico» Pompeo, che ha ribadito l’importanza di tutelare la privacy italiana nei confronti di Pechino. Di Maio lo ha rassicurato ampiamente e non sembra un caso che meno di un mese dopo abbia compiuto, in piena pandemia, un viaggio ufficiale in Israele, da sempre paese strettamente legato a Washington. Un’ottima occasione per elogiare gli Accordi di Abramo, tra Israele, Bahrein ed Emirati arabi uniti, la cui firma «rappresenta un contributo positivo verso la pace e la stabilità in medio oriente» ed è «un punto cardinale della nostra politica estera in medio oriente», secondo Di Maio. Una dichiarazione pesante per un partito in cui l’interventismo americano non era mai stato visto di buon occhio. E in cui è ancora così, almeno per alcuni, come il senatore Airola, che definisce il piano «inadeguato».

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